Partiti e politici
Io, patrioti e famigli: il Natale tronfio e un po’ inquieto di casa Meloni
Archiviata Atreju, Giorgia Meloni si trova con gli stessi nodi politici sul tavolo e le stesse certezze. Dopo portare il partito e il paese nel 2025? Con quali risorse e con quali obiettivi? L’orgoglio di fazione la aiuta, ma di certo non basterà per sempre
Si avvia verso la fine il 2024, il secondo anno pieno di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi. Continua a evitare le conferenze stampa e gli incontri coi giornalisti, e rinvia anche quella di fine anno all’inizio del 2025. Parla invece da palchi amici circondata dai suoi Fratelli d’Italia, tra (piccole) ali di folla plaudente, come quella della sua Atreju, la festa organizzata da Gioventù Nazionale, fin dal 1998, quando c’era Lei a militare nell’organizzazione giovanile del suo partito, che allora si chiamava Azione Giovani. Sul sito dei ventenni della destra di oggi, rivelati con qualche nostalgia di troppo da un’inchiesta di Fanpage appena pochi mesi fa, di Atreju non c’è invero traccia, e le pubblicazioni sono ferme ad anni fa. Poco male: a difenderli dalle malelingue di chi aveva pizzicato braccia tese e frasi antisemite ci pensa la loro Capa in persona. “Gli errori dei singoli”, come ha detto ieri chiudendo la festa di Atreju, non bastano a sminuire la meraviglia che siete, dice Giorgia ai suoi ragazzi. Dice anche parecchie altre cose, che potete leggere nel racconto dal campo (Hobbit) fatto da Enrico Cerrini, sulle quali vale la pena di riflettere un po’, sia per le poche volte nelle quali si concede, sia perchè chi fa politica militante e di parte, quando parla ai suoi, tende a dire non la verità, ma ciò che vuole sia creduto come vero da chi la crede e la segue.
La differenza tra nazione e fazione, secondo Giorgia
Tra le tante parole dette da Giorgia ai suoi, una dichiarazione d’intenti pare tanto poco veritiera quanto, anche per questo, molto significativa. «Chi spera che qualcuno metta il nostro destino prima della nazione, resterà deluso. Noi siamo per deludere la sinistra, è il nostro sport preferito». E ha aggiunto: «Noi non saremo mai fazione». Nazione, dunque, e non fazione. Gente di patria, e non di parte. Salta all’occhio l’evidente contraddizione di chi, mentre rifiuta l’appartenenza “di fazione”, attacca in tono canzonatorio e legittimamente ma apertamente fazioso gli avversari politici. Ma più della contraddizione contingente, colpisce la distanza tra gli intenti dichiarati e la retorica lungamente coltivata in questi anni di governo. Mentre l’azione di governo incarnata dalla prudenza contabile di Giorgetti è stata quasi obbligata dal contesto economico e dalle regole internazionali, infatti, il discorso pubblico della Presidente del Consiglio è stato costantemente volto alla difesa del profilo identitario della sua parte politica e, in particolare, del suo partito. Lo è stato in tutte le azioni normative e governative più simboliche – il reato universale di Gestazione per Altri è il caso più evidente -, e in tutti i discorsi politici pronunciati. Toni e parole d’ordine da Capa di un partito politico di minoranza, non da leader e fondatrice di un partito conservatore di maggioranza e che ha al momento anche la responsabilità di governo, legittimata in origine e in più occasioni successive dal voto popolare.
E proprio questo profilo di parte, apertamente e dichiaratamente fazioso, è stata la forza di Giorgia Meloni, e in una certa misura continua a esserlo. È dall’inizio della sua storia politica e della sua scalata ai cieli del centrodestra prima, e del Paese poi, che ha puntato molto, quasi tutto, sulla capacità di essere distinta e divisa dagli altri. La scelta di Ignazio La Russa per la seconda carica dello Stato è in fondo una manifestazione istituzionale lampante di questa postura politica. Ma nel lungo periodo, tutto questo è sostenibile e positivo, per una leader che comunque vuole accreditarsi come interprete – per quanto originale – del conservatorismo democratico? Al di là del consenso, che per il momento non sembra insidiato, è l’atteggiamento giusto per dare stabilità e radici a un’evoluzione politica della quale il Paese ha bisogno? Non è un caso, del resto, se a spronarla verso un’evoluzione non sono solo e tanti gli osservatori e gli analisti, ma anche un pezzo – minoritario, forse, e significativamente “non romano” – del suo partito. Lo ha fatto da ultimo Mario Anzil, vicepresidente della Regione Friuli e proveniente dal Movimento Sociale, che in un’intervista al Foglio indica a Meloni la strada che porta al centro. In molti indicano quello come il destino naturale e più sicuro per la premier e il suo partito. Per farlo servirà senz’altro rompere con la zavorra di un passato sempre rivendicato e semmai minimizzato, bollando come sterile e fuori dal tempo tutte le polemiche sul fascismo. E servirà anche allargare il perimetro di una classe dirigente che fa perno principale sulla sorella Arianna e su un nucleo di dirigenti che vengono dal MSI romano. Che sono anche stati, però, la garanzia di tenuta e di fiducia ben riposta in questi anni di potere.
La tentazione di un improbabile voto anticipato, chi lo teme, chi ci spera
Ogni tanto, inoltre, si riaffaccia lo spettro della fine anticipata della legislatura. Ne abbiamo parlato su queste pagine, ne parlano di tanto in tanto i giornali, e la diceria gira e rigira per i corridoi dei palazzi della politica. A volere uno show down anticipato, per non farsi logorare dal tempo e dalle grandi riforme che sono state anche ieri promesse ma che difficilmente saranno davvero mantenute, sarebbe proprio Meloni in persona. Che in un colpo solo, convinta di un consenso ancora più schiacciante, regolerebbe i conti con alleati problematici o riottosi, da un lato, potendo contare su opposizioni incapaci, nel breve, di trovare una quadratura e compattezza. Tuttavia, anche qualora la presidente accarezzasse questo sogno di cruenta gloria, la strada per realizzarlo non sarebbe certo facile, da trovare. Come interrompere il cammino di un governo del quale continua a magnificare le lodi senza perdere di credibilità? Come controllare una crisi i cui effetti, nel palazzo ma soprattutto nelle urne, sarebbero per definizione imprevedibili?
Più facile immaginare che, alla fine, prevarrà la continuità, che comandare oggi, seppur in modo imperfetto, è sempre meglio che rischiare di non poterlo fare più avendo accarezzato il sogno di poterlo fare meglio domani. Le fonti di agitazione e inquietudine non mancano. I segnali dai quali guardarsi anche. Le dimissioni del direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini, accompagnate dall’ipotesi di una discesa in campo con radici in un centro che guardi a sinistra, sono ad esempio un caso più serio e rilevante della concreta possibilità che una sua attività politica cambi, nell’immediato, gli scenari. Ruffini è arrivato in uno dei nodi più importanti e delicati della macchina pubblica italiana, quello di Equitalia, nel 2015, rimanendoci – attraversando le epoche Renzi, Gentiolini, Conte e Draghi – per quasi un decennio. È stato vicino alla new wave del Pd renziano, ma è anche figlio della storia politica del cattolicesimo politico siciliano, che fa rima non da oggi con quella di Mattarella. Giorgia e i suoi avranno unito con attenzione i puntini, e non potranno non avere visto che queste dimissioni sono un segnale da non trascurare. Anche considerando che la gestione del fisco, al di là di promesse e proclami, non vive un momento particolarmente felice, e il concordato preventivo che doveva essere fiore all’occhiello rischia di rivelarsi bomba ad orologeria che esploderà nelle tasche, già piangenti, del suo governo.
Meloni si è preparata al Natale nella tana dei suoi. Aveva bisogno di galvanizzare le sue truppe e se stessa. È normale, anche ovvio, perfino giusto, che chi fa politica riparta dalla sua fazione. Tuttavia, per costruire futuro serve ricordarsi che la nazione è più importante e viene prima. Dichiararlo serve, e però non basta.
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