Partiti e politici

Max D’Alema e la riconquista del PD

23 Marzo 2015

Inutile negarlo: quando Max D’Alema apre bocca, riesce sempre a strappare almeno un ghigno di approvazione anche a noi che non l’abbiamo mai – e sottolineo mai – sostenuto. Ogni volta che interviene pubblicamente, Richelieu D’Alema si conferma maestro d’eloquenza. Un’eloquenza lontana dal grigiore del politichese anche nel caso di interventi domestici, svolti cioè nell’atmosfera controllata delle assemblee di partito o di corrente. D’alema parla a tutti anche se vuole raggiungere soltanto quei due o tre che gli interessano, dimostra una cultura profonda senza ostentarla. Un po’ retore dell’antichità, un po’ stand-up comedian, D’Alema si è spesso avvalso dell’aiuto di intelligenze a lui affini, soprattutto quando si trattava di mettere ordine nella forma lunga di un intervento congressuale o di un libro. Ma è evidente che quello stile allusivo e sorvegliatissimo, quell’alternanza tra colpi di fioretto, granate a frammentazione e bombe al napalm sono una cifra tutta sua, forse innata.

Di bombe D’Alema ne ha sganciate un paio anche alla riunione di Area Riformista dell’altro ieri, e assieme alle bombe ha lasciato cadere lì un paio di consigli, da osservatore distaccato, da «extraparlamentare» impegnato, a suo dire, più nell’arioso contesto del socialismo europeo che nell’angusto pollaio della sinistra italiana. Bontà sua, ha trovato il tempo di suggerire due cose alla composita platea dell’Acquario Romano. La prima è che se si vuole battere Renzi e riprendersi il partito, occorre che la minoranza sia unita. La seconda è che – sempre se si vuole sconfiggere Renzi – occorre far proprie le sue tattiche: se il rottamatore, attraverso lo strumento delle Leopolde, ha raccolto e organizzato un consenso in parte esterno al partito, la minoranza deve fare lo stesso, arroccarsi in quella zona di confine tra partito e società civile per meglio sferrare i «colpi che lascino un segno».

Qualche tempo fa, di fronte al conflitto interno tra renziani e minoranza, scrivevo di come il “grande edificio della Sinistra” si fosse rivelato una di quelle costruzioni abusive che collassano non appena arrivano al terzo piano, e che il destino di noi sinistrati fosse ormai quello di vivere attorno ad esso in una sorta di tendopoli. Dopo il discorso di D’Alema credo di dover precisare la metafora. Quello del PD non sembrerebbe nemmeno più un edificio, ma un terrain vague che con una certa frequenza diventa campo di battaglia. Le tende sono quelle dei vari eserciti, anzi delle varie bande accampate ai margini del luogo dello scontro. Bande, nemmeno più correnti organizzate, convenute all’Acquario per portare avanti l’unico obiettivo – obiettivo in cui è difficile distinguere il piano personale da quello politico – che li accomuni: la defenestrazione di Matteo Renzi e la riconquista del partito.

E su cosa andrebbero sferrati, i colpi di cui parla D’Alema, quindi? Sulle macerie di un partito allo sfascio? Il punto è che l’antirenzismo è forse una ragione sufficiente perché le bande si riuniscano ogni tanto a praticare il loro certamen retorico, ma di certo non sufficiente perché tra di esse si possa stabilire un vero accordo politico, sia pure a fini tattici. Lo si è visto chiaramente in varie repliche all’intervento di Max, che questa volta, oltre agli applausi d’ammirazione e agli amorosi sguardi del fido Gotor, ha ricevuto persino qualche sonoro ceffone a mano aperta. Ci ha pensato Civati, con sorprendente chiarezza, a precisare come l’idea di «fare una leopolda» l’avesse già fatta sua già ai tempi della prima Leopolda vera e propria, quella organizzata assieme a Matteo Renzi, quella in cui il bersaglio polemico erano proprio d’Alema e la classe dirigente dei vecchi “ragazzi della FGCI”!

«Il PD non è più un grande partito popolare, perché non è più un grande partito», i DS avevano seicentomila iscritti, il PD ne ha meno della metà, dice D’Alema. Verissimo. Ma quando hanno cominciato ad andarsene gli iscritti? Quando si è cominciato a pensare alla disintermediazione spinta, al “partito leggero” in cui gli iscritti contano poco o nulla? Quando si è iniziato a guardare più ai favori delle élite finanziarie che ai bisogni della propria (teorica) base elettorale di riferimento? Quando si sono lasciati i benedetti “territori” in mano alla gestione clientelare dei tanti capibastone più o meno raccomandabili? Rispondere richiederebbe un’onestà intellettuale che non fa parte delle pur numerose virtù del retore D’Alema. Lo dice ancora più chiaramente Walter Tocci, civatiano ma testimone e protagonista di altre stagioni politiche: «Renzi mette in pratica l’agenda di Violante, appare un innovatore perché noi siamo legati al passato».

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Ma il ceffone più grosso arriva nientemeno che da Gianni Cuperlo, che si rivolge direttamente a D’Alema: «ci hai ammonito a stare uniti e a dare battaglia, credimi lo facciamo […], ma se tu e altri nella Sinistra europea lo aveste fatto un po’ di più prima, forse oggi la montagna da scalare sarebbe stata un pochino meno alta». Certo, appare un po’ semplicistico accusare D’Alema di essere stato “troppo poco di sinistra” per anni, senza affrontare la questione centrale, quella della visione del Potere. E qualcuno potrebbe del resto ricordarsi di quando Cuperlo rappresentava il braccio intellettuale dei DS dalemiani, mentre il braccio armato era rappresentato dai lothar Velardi e Rondolino, oggi corsari renziani dopo qualche anno a libro paga di Berlusconi. Transeat. Forse la possibilità stessa della politica è legata all’oblio delle responsabilità personali.

Tra i pesci riuniti nell’Acquario, infine, non poteva mancare Pierluigi Bersani. Prima della vittoria di Renzi e di tutto il risentimento che ne è seguito, consideravamo Pigi l’uomo del giusto mezzo, seppure corresponsabile di quella storia di errori ed occasioni mancate, rispetto alla quale non riesce ancora a fare grandi autocritiche. E tuttavia non è possibile metterlo sullo stesso piano di Max. Bersani in quest’ultimo intervento guarda anche a noi renziani-non renziani, a chi abbia votato Renzi non in opposizione ad una storia che è anche la nostra, ma cercando di dare una scossa ad un corpaccione in coma (pentendosene poi, ma non del tutto). All’arsenale delle ormai celebri metafore bersaniane, sabato scorso si è aggiunta quella del «vendere casa per andare in affitto», riferita al nuovo corso renziano.

A questo punto non riesco ad evitare un mash-up metaforico non proprio rassicurante: c’è chi, come Pigi, pensa a ricomprare casa, chi come me – semplice iscritto – pensa che quella casa, ammesso che stia ancora in piedi, necessiti di qualche serio intervento statico. E infine c’è Max, che si dice pronto a sferrare colpi contro l’edificio pericolante…No, Max, se c’è una cosa di cui in questo momento non abbiamo bisogno, sono proprio i «colpi» che hai in mente tu.

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