Partiti e politici

Matteo, Silvio e l’eterogenesi degli elettorati

28 Novembre 2017

Ha suscitato una certa eco l’intervista nella quale Eugenio Scalfari ha confessato che, dovendo scegliere il proprio premier tra Di Maio e Berlusconi, opterebbe per quest’ultimo.

In realtà vi è poco di cui stupirsi: dopotutto il Partito Democratico – forza politica prediletta del Direttore – e la formazione dell’ex Cavaliere hanno governato insieme dal 2011 (governo Monti) al 2013 (governo Letta) e si propongono entrambi come baluardi del sistema contro la minaccia incombente dell’ascesa al potere delle forze antisistema, cioè del Movimento Cinque Stelle; la loro futura alleanza appare dunque piuttosto naturale e, in quest’ottica, il ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi risulta ovviamente un “male minore”.

E’ però abbastanza sorprendente osservare come le speranze degli elettori del Partito Democratico siano andate rapidamente deluse: il loro leader prescelto, Renzi, che doveva rottamare la vecchia classe politica (compreso Silvio), si trova oggi quasi fuori dai giochi, costretto ad augurarsi di poter sfidare l’anziano ex premier per non perdere le luci della ribalta politica; colui che doveva conquistare l’elettorato “moderato” di centro-destra rischia di vedere i voti del suo Pd migrare, come quello di Scalfari, verso lo storico rivale.

Questo risultato paradossale è dovuto alla strategia “mimetica” tipica della stagione renziana: a forza di adottare gli slogan, le pose e le promesse di Berlusconi per sedurne gli affezionati sostenitori, Renzi ha finito per sdoganare il Caimano agli occhi dei propri elettori e lo ha reso un candidato premier appetibile persino per chi, sei anni fa, ne festeggiava le dimissioni. Così, se i sondaggi pre-elettorali della prossima primavera segnalassero una forte ascesa del Movimento di Beppe Grillo, potremmo assistere all’innaturale fenomeno di un “voto utile” che, nei collegi uninominali, si traferisce dal Pd alla coalizione di destra.

Questa eterogenesi degli elettorati non sarebbe, del resto, una novità. Nel 2012 Renzi riuscì a sfiorare la vittoria nelle primarie per la premiership del centrosinistra adottando l’argomento “grillino” per eccellenza: quel “mandiamoli tutti a casa” che lui chiamava, poco sobriamente, “rottamazione”. L’entusiasmo palingenetico suscitato dalla sua campagna non fu sufficiente a garantirgli la vittoria; ma indusse molti elettori delusi dall’esito delle primarie a votare alle politiche per il partito che meglio corrispondeva a quello slancio rivoluzionario: il M5S, che risultò la prima forza nel Paese.

Oggi, nell’imminenza delle prossime elezioni, il Partito Democratico rischia di compiere due volte lo stesso errore: la scelta di imitare da un lato l’attitudine conservatrice e rassicurante di Forza Italia e dall’altro (seppur timidamente) l’approccio securitario e identitario della Lega (con le iniziative di Minniti e la rinuncia allo ius soli) può fargli perdere consenso proprio a favore dei partiti a cui vorrebbe contendere il loro.

In politica una sola cosa paga veramente: la coerenza. Ripetendo oggi le promesse di venticinque anni fa, Berlusconi appare agli occhi degli elettori come “quello di sempre”, il candidato affidabile perché uguale a sé stesso. Renzi, invece, sembra incerto e confuso, privo di una linea politica propria e pronto ad assumere quella più popolare nei sondaggi del momento: ecco perché rischia di perdere il favore che si era guadagnato ai tempi della sua aggressiva e determinatissima ascesa.

Mancano ancora alcuni mesi al voto: potrebbero bastare al Pd per smettere con gli inseguimenti e tornare al proprio ruolo. Ma occorre una lucidità politica che sembra scarseggiare, al Nazareno così come nella stanca rassegnazione di Scalfari e di tanti elettori

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