Partiti e politici
Marino e Orfini giocano a poker sui destini di Roma
Un bagno di Folla? Sì ma in una vasca da bagno. Diciamolo senza ipocrisie: non è che ci voglia poi così tanto a riempire Piazza del Campidoglio. A voler essere sinceri, i dipendenti comunali che un anno e mezzo fa protestarono contro il sindaco dimissionario della Capitale per il taglio del salario accessorio erano molti di più di quelli che ieri gli chiedevano di ritirare le dimissioni formalizzate lo scorso 12 ottobre.
Ma è chiaro che in questa partita a poker tra Ignazio Marino e il commissario romano Matteo Orfini, i numeri sono una variabile che i giocatori possono interpretare secondo convenienza. Nelle carte più o meno scoperte del quasi ex sindaco ci sono un gruppo di rumorosi supporter, qualche “imbucato eccellente” come il parlamentare Marco Miccoli – uno che quando era segretario del Pd romano ha permesso che le cordate interne facessero i loro comodi – nonché tutti i limiti conclamati del suo partito, quello che sta cercando di mandarlo a casa ma che vuole evitare in tutti i modi di farlo ricorrendo ad un voto in aula.
Marino conosce il Pd e ha fatto i suoi calcoli. Sa bene che le carte del povero Matteo Orfini – commissario sempre più solitario di un partito che non c’è quasi più – non sono eccellenti, soprattutto quella promessa di ricandidatura che sarebbe stata offerta ai consiglieri uscenti in cambio della testa del sindaco. In fondo lo capirebbe anche in bambino: in primavera, quando verosimilmente si andrà al voto, il partito registrerà uno scontato crollo dei consensi, figlio dell’inchiesta su Mafia Capitale e del fallimento dell’esperienza amministrativa. A questo si potrebbe aggiungere una mossa dello stesso marziano, che ha lasciato intendere che non escluderebbe di ricandidarsi presentando una sua lista. Il risultato? Tutti gli attuali consiglieri uscenti costretti a contendersi 4 o 5 seggi (ammesso che quel poco che resta del Pd romano accetti tutte le ricandidature…) senza la possibilità di campagne elettorali faraoniche perché ogni singolo finanziamento – anche se lecito – passerebbe sotto la lente d’ingrandimento dei media.
Il sindaco sa bene che la partita è tutt’altro che chiusa e ha deciso di sfidare apertamente Orfini con tanto di improbabile citazione di Che Guevara. Sull’altro lato del tavolo, il commissario mantiene alta la tensione minacciando la sfiducia in aula, forte della convinzione diffusa che la stragrande maggioranza dei romani Marino non lo vuole più vedere neanche in cartolina. Ma viene gelato dalla Presidente del Consiglio Comunale, Valeria Baglio, che tira il freno a mano e chiama in causa il partito nazionale, delegittimando nei fatti il “giovane turco”: «Se Marino ritirerà le dimissioni verificheremo da un punto di vista tecnico regolamentare cosa significhi e da un punto di vista politico quali decisioni prendere con un confronto che non può escludere il partito nazionale». Insomma, per il commissario romano un altro duro colpo dopo l’errore grossolano su quelle nomine all’Auditorium da lui definite “last minute”, ma che erano state avallate mesi prima dallo stesso Partito Democratico. Orfini sembra in confusione ed è chiaramente sotto pressione. Un fallimento a Roma ridimensionerebbe non poco le sue aspirazioni personali sia nel Pd che nella sua stessa corrente.
E mentre sotto il Marco Aurelio gli sfidanti misurano la loro astuzia e i loro nervi circondati da un ristretto pubblico di affezionati supporter, la città eterna continua a vivere rassegnata il suo degrado quotidiano, soprattutto in quelle periferie lontane dove non c’è molto tempo per dedicarsi a sottili ed elaborate strategie di gioco, ma ci si accontenta di una partita a briscola.
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