Partiti e politici
Marco Cappato: «I referendum hanno successo perché la politica non sa decidere»
Mentre è già stata superata la soglia delle 500mila firme per il referendum sulla cannabis legale, il quesito sull’eutanasia, al 30 settembre, potrebbe addirittura superare il milione di sottoscrizioni valide: ad oggi sono infatti 600mila quelle raccolte dai banchetti organizzati in tutta Italia dal comitato promotore e 300mila quelle compilate online, tramite SPID o carta d’identità elettronica. Un vero e proprio tsunami che sta per investire la politica e ha un po’ sorpreso anche chi, come il Tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, Marco Cappato, si è speso in prima persona per portare a casa lo straordinario risultato.
«Un grande successo – spiega – un messaggio molto chiaro. Credo che ci sia un dato molto significativo che in realtà accomuna la raccolta firme sull’eutanasia a quella sulla cannabis: quello della grande partecipazione giovanile per ciò che concerne le firme raccolte online, con una maggioranza di donne per il primo e di uomini per il secondo. Come ho scritto qualche giorno fa, il cliché dei giovani disinteressati alla politica riguarda la politica politicante dei partiti, ma non la politica che cerca di dare risposte concrete ai problemi».
La firma digitale è stata la grande novità di queste raccolte, ma c’è chi sostiene che ora è troppo facile raggiungere il numero necessario di sottoscrizioni per presentare i quesiti, che ci troveremo a votare su tutto lo scibile: alla lunga potrebbe diventare un problema?
«Per attivare il meccanismo del referendum ci vogliono ovviamente delle soglie e delle regole. Quello che era sbagliato è che la soglia fosse minata da una serie di impossibilità materiali e ostacoli burocratici, che è poi la ragione per cui l’Italia è stata condannata dall’Onu sul nostro ricorso presentato da Mario Staderini. Di fatto, le condizioni per attivare il referendum erano discriminatorie perché le figure degli autenticatori facevano sì che la firma cartacea fosse esclusivo appannaggio di organizzazioni politiche e partiti che disponessero di decine di migliaia di eletti a livello locale. Questa discriminazione è stata superata in parte dall’aggiunta della figura dell’avvocato autenticatore, ma soprattutto dalla possibilità di sottoscrizione digitale. Un’altra discriminazione inaccettabile era quella di chi non poteva firmare perché impossibilitato per motivi di salute, di lavoro, di residenza o di età, a raggiungere i banchetti. La differenza tra chi propone delle riforme per rafforzare l’istituto referendario e chi le propone per boicottarlo sta nel riconoscimento dell’effetto positivo di questa novità: poi si può anche aprire un dibattito sulla soglia delle firme, ma penso che la prima cosa da fare sia l’abolizione del quorum, perché con un astensionismo fisiologico ormai vicino al 50%, il quorum è una potentissima arma che i nostri padri costituenti non potevano immaginare contro l’utilizzo stesso del referendum. Fa molto riflettere il fatto che oggi quella su soglie e firme online sia l’unica discussione che si legge sui giornali e questo fa pensare che non si voglia entrare nel merito delle questioni che solleviamo».
Il 61% dei firmatari per il referendum eutanasia ha una fascia d’età che va dai 18 ai 35 anni. Vi aspettavate un interesse così forte delle nuove generazioni su un tema come il fine vita, su qualcosa di così lontano dalla loro quotidianità?
«Ha un po’ sorpreso anche noi: sono stati tantissimi i giovani che hanno firmato sia ai banchetti che con la sottoscrizione via SPID, uno strumento che inizialmente sembrava accessibile ai soli professionisti che già lo utilizzano per il loro lavoro. Quelli che ritenevano che i giovani fossero distaccati rispetto a un argomento come il fine vita, non tenevano però conto di una cosa: il fine vita è parte del vissuto delle persone, che può essere il vissuto di un nonno, di una mamma, di un papà, ma anche di chi accudisce quel nonno, quella mamma, quel papà. È qualcosa che non riguarda solo le persone che lo vivono in prima persona ma tocca milioni di italiani. Essendo cambiato il modo di morire – che molte volte non è più l’attimo immediato del decesso ma un processo che può durare anche molti anni – è cambiato anche il modo di vivere di chi accompagna le persone nella fase terminale della loro esistenza. E questa è un’esperienza che accomuna moltissime persone e che probabilmente impressiona e coinvolge più i giovani che i meno giovani».
La provenienza geografica delle firme digitali mostra un’Italia spaccata in due, con le regioni del sud fanalino di coda con appena il 16% di adesioni.
«In realtà bisognerebbe leggere quei dati in proporzione alla popolazione. Al netto di quello che potrebbe essere un ritardo infrastrutturale di alcune aree del Paese in cui la rete internet è meno ramificata, non ho avuto l’impressione che ci fosse un gap così profondo. Girando quasi tutte le regioni non ho riscontrato nessuna differenza né nella quantità di firme né nell’entusiasmo della rete di raccolta: ho visto banchetti composti da ventenni assistiti da attivisti più adulti non solo nei grandi capoluoghi ma addirittura nelle piccole città di poche migliaia di abitanti. E questo è accaduto dalla provincia di Trento a quella di Ragusa».
Con molta probabilità sull’eutanasia sfiorerete il milione di firme, un risultato incredibile. Che campagna referendaria vi aspettate? I partiti politici – specialmente quelli che si definiscono “progressisti” – troveranno il coraggio di prendere una posizione chiara?
«La nostra campagna sarà rivolta ai cittadini perché i referendum sono dei cittadini per definizione. Noi non siamo un partito, sia le raccolte di adesioni per il referendum sull’eutanasia che quello sulla cannabis sono partite su impulso dell’Associazione Luca Coscioni, poi ovviamente sono state aperte a tutti, compresi i partiti e i movimenti. Non era nostro obiettivo spendere la spinta referendaria all’interno della polemica politica, quello possono eventualmente farlo gli esponenti delle forze politiche. Io ho la speranza che tutti si esprimano, anche contro: che ci sia un dibattito aperto, pubblico e di confronto vero tra le ragioni del sì e quelle del no. Spero che nessuno voglia giocare la carta della furbizia, ovvero quella dell’astensione, perché questo sarebbe un danno alla democrazia. Penso che comunque andrà, dopo trenta giorni di campagna elettorale, ci sarà ovunque, nel Paese, una maggiore conoscenza di tutti rispetto ai temi affrontati dai quesiti».
Vi aspettavate qualcosa di più dal Pd?
«Il fatto che fino ad ora ci sia stato un silenzio totale, interrotto da poche timide dichiarazioni la dice davvero lunga, ma a me dispiace soprattutto per loro, perché in questo modo sono i primi a indebolirsi. In questi giorni sui giornali c’è un finto dibattito: qualcuno vuol far credere che i referendum vadano contro la democrazia rappresentativa, contro i partiti, addirittura contro il Parlamento. Io penso che l’antiparlamentarismo sia l’anticamera di ogni fascismo e di ogni forma di totalitarismo: mi ritengo un fautore della centralità del Parlamento, ma la marginalizzazione di quest’ultimo non arriva certo adesso con le nostre raccolte firme; sostenerlo è un modo di confondere la conseguenza con la causa. Il Parlamento è stato già marginalizzato da decenni di decretazioni d’urgenza, dal continuo aggiramento delle sue prerogative da parte degli esecutivi. Oggi è esautorato delle sue funzioni e non è in grado di decidere neanche su proposte che sono ferme lì da anni sull’eutanasia, sulla cannabis, ma anche sulla giustizia. La campagna referendaria non ha avuto successo perché qualcuno si è svegliato una mattina e ha deciso di mettere le firme online, ma perché il Parlamento e i partiti hanno lasciato senza risposte molte esigenze radicate nella società italiana. La politica, invece di interrogarsi su come fare per contenere lo tsunami dei referendum, dovrebbe chiedersi come fare a funzionare meglio, a dare quelle risposte che non è più in grado di dare».
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