Partiti e politici
Ma perché una persona con problemi normali dovrebbe interessarsi al Pd?
Sono passati quindici anni, e sembra un secolo. Quando è nato il Pd, nel 2007, lavoravo in un giornale molto politico e di centrosinistra, si chiama(va) Il Riformista ed era molto vicino all’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ma anche al primo segretario del Partito, Walter Veltroni. Era molto vicino al primo perché, tra le colonne portanti del giornale, c’era Emanuele Macaluso, che contribuiva anche al sostentamento economico del quotidiano attraverso i finanziamenti pubblici cui accedeva con la sua storica rivista “Le Ragioni del Socialismo”. Il vecchio Emanuele, scomparso un paio di anni fa, era storico sodale e amico di Napolitano, e tra i punti di riferimento di tutta l’area riformista del Pci prima e di tutte le sue gemmazioni postume poi. Quel Riformista, poi, era anche molto vicino a Veltroni, per una ragione più contingente: l’allora direttore della testata, Paolo Franchi, molto stimato sia da Macaluso sia da Napolitano, era anche amico di lunghissima data di Veltroni, stessa Roma, stesso mare. Tra le cose curiose di quella storia politica ed editoriale, c’era che quel giornale, qualche anno prima, era nato per impulso diretto di Claudio Velardi, che era stato a lungo molto vicino a Massimo D’Alema. D’Alema notoriamente era molto lontano dall’idea di partito e forse anche di società di Veltroni. Ma nel 2006 erano subentrati nuovi proprietari, gli Angelucci, imprenditori della sanità privata nel Lazio e non solo, e desideravano molto avere buoni rapporti con tutte le parti politiche. Con la destra per la quale editavano Libero e si candidavano alle elezioni, e con la sinistra con la quale volevano dialogare attraverso il Riformista. Macaluso rappresentava quel pezzo di sinistra intellettuale e politica scettica nei confronti del progetto del Partito Democratico, e avrebbe preferito che la sinistra post-comunista, allora rappresentata dai Democratici di Sinistra, ultimasse la sua transizione in senso compiutamente socialdemocratico. Alla proprietà del giornale, tuttavia, interessava poco il dibattito intellettuale e molto, invece, essere accreditati come un punto di riferimento affidabile per chiunque si candidasse credibilmente a governare o, comunque, a contare. E siccome era chiaro che alla fine il Partito Democratico sarebbe nato dalla fusione di Ds e Margherita, non c’era dubbio che interesse degli editori fosse di sostenere quel processo sedendosi attraverso l’editoria a quel tavolo. Anche a quel tavolo.
Per un (allora) giovane e (sempre allora) drogato di politica fu un’esperienza esaltante: vedere da così vicino tutte queste cose, e molte di più, e molte altre, fu interessante, formativo, divertente. Pur dentro a traiettorie che portavano già, dentro di sé, i crismi delle sconfitte prossime venture e anche, probabilmente, quelle delle disfatte che sarebbero arrivate appena dopo, il dibattito fu vero e riguardò questioni teoriche e pratiche che, per definizione, erano destinate a incarnarsi in scelte politiche precise. Quale posto doveva avere l’obiettivo di una società socialdemocratica, dentro a un partito e un blocco politico che tra i principali obiettivi di governo poteva rivendicare le liberalizzazioni di Bersani (proprio lui, quello che meno di dieci anni dopo sarebbe stato considerato molto molto socialista)? Quale rapporto, quanta osmosi e quanta dialettica era necessaria avere coi sindacati, che sempre di più potevano contare su blocchi di peso nel pubblico impiego del centro-sud, mentre la parte più industrializzata del paese, il Nord, continuava a non fidarsi del centrosinistra? Quanto poteva essere laico lo sguardo sulla giustizia e sulla magistratura, suoi suoi errori e sulle idolatrie di cui era stata soggetto, in un contesto storico che faceva comunque di Berlusconi e delle sue vicende giudiziarie un punto di riferimento? Quanta disattenzione ci si poteva ancora permettere, e quanto a lungo, ancora, sulle questioni di genere, sull’irrisolta questione femminile, in un paese che però in gran parte si affidava ancora a modelli familiari molto tradizionali, e che sui diritti civili non riusciva ancora a legiferare in maniera contemporanea, che si trattasse di unioni civili o di procreazione assistita? Come pensarsi europei? E come pensare al fenomeno migratorio in maniera alternativa rispetto alla legge Bossi Fini che, dal governo, non si era ancora riuscita a modificare nonostante tanti proclami? Sono solo alcune delle domande che animarono il dibattito allora. Sono ovviamente tradotte dalla sensibilità di chi scrive oggi per come se le ricorda allora, e ovviamente il giardino di quando tutto era ancora intero è sempre più verde.
E tuttavia, a guardare con un po’ di serenità al partito che oggi si è rimesso mestamente in coda per le primarie, non si può negare che qualcosa sia davvero andato storto. Che a un certo punto, quantomeno, qualcosa sia andato storto non lo nega nessuno. Nemmeno “loro”, sempre che ci si riesca a parlare. Gliel’hanno detto gli italiani in molti modi e a più riprese, votandoli sempre di meno nelle urne vere. Basti pensare che dal 2008 in cui il neonato Pd di Veltroni prese il 33% in poi, alle elezioni politiche, è stato un lungo, lento, inesorabile calo. Gliel’hanno detto anche i simpatizzanti e i militanti che, di volta in volta, di gazebo in gazebo, di primaria in primaria, hanno partecipato sempre meno e, potremmo dire, sempre peggio: cioè portando acqua a un dibattito sempre più asfittico, più incentrato su poche questioni identitarie e sempre meno attento alle grandi questioni storiche e sociali, nazionali e globali, del tempo che viviamo e di quello che verrà. Non è un caso se, proprio lungo questo tempo, la vera capitale, la vera roccaforte del Partito Democratico è diventata la mia città, Milano, che sempre meno rappresenta il paese e la sua condizione, e sempre di più incarna una navicella spaziale extraterritoriale che per condizione economica e sociale ha sempre meno DNA in comune col resto d’Italia. Il tutto in un tempo in cui l’identificazione antropologica conta almeno quanto le idee che si propugnano e gli interessi che si dice di rappresentare: detto che anche sulle prime e sui secondi nessuno potrebbe mettere la proverbiale mano sul fuoco.
Il rito delle primarie, così, si sono progressivamente trasformate da “festa democratica” a triste assemblea di condominio in cui spesso chi partecipa sta continuando a regolare i conti con compagni di viaggio che disprezza. Poi c’è, naturalmente, chi conserva senso del dovere civico e della passione – per quanto una passione possa essere doverosa e restare passione – e cerca di non farsi sopraffare dal cinismo, dalla stanchezza, da analisi come quella che state leggendo. E si mette in coda per scegliere Bonaccini o Schlein, per ragioni che ritiene politiche o degne, almeno, del tempo da dedicare in una domenica di pioggia e dell’investimento non esorbitante di due euro. Ma quanti, in onestà, possono dire di farlo perché si riconoscono nell’idea di paese e di partito incarnati dall’uno o dall’altra? Quanto hanno capito cosa succederà se vincerà l’una o l’altro? Quanti, quante riescono andare oltre a “serve aria nuova” o a “ma lei ha dietro Franceschini e Orlando”? Quanti non sono animati da rancori fondamentali, come quelli che gli anti-renziani radicali riservano a Bonaccini, che fu renzianissimo, e a quelli di chi ancora rinfaccia alla sua avversaria di aver lasciato il partito – cui non era iscritta fino a qualche mese fa, invero – invece di stare dentro a combattere? Quanti possono dire, insomma, che all’inizio del cammino che porta fuori di casa fino al posto più vicino in cui votare ci sono domande normali, risposte possibili, considerazione consapevole dei problemi normali che riguardano, nella loro straordinarietà storica o nella loro banalità contingente, la maggioranza della popolazione? Lo dico retoricamente, ma con rispetto per la volontà di chi oggi, ancora una volta, ha deciso di partecipare e di contribuire a determinare il prossimo futuro del Partito Democratico e quindi della politica italiana. La mia personale convinzione è che un segretario o una segretaria diversa non cambieranno la storia di quell’area politica se non cambia radicalmente il rapporto tra il partito e la società. Se, per dirla tutta, quel partito non ricomincerà ad avere un rapporto con la società che vuole rappresentare, anzitutto definendola. Non è una questione da poco. Come sempre, tuttavia, le cose difficili non diventano più facili se non si comincia mai a farle e i deserti non si restringono se non si inizia a camminarli. Anzi, in epoca di siccità tendono ad allargarsi: e non basterà una domenica di pioggia a rovesciare il corso della storia.
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