Partiti e politici

Ma NCD è davvero nuovo? Riflessioni sulla Destra che non c’è

31 Agosto 2015

Mi è capitato in questi giorni di pausa estiva di rileggere l’eccellente “In fondo a destra. Cent’anni di fallimenti politici” (Antonio Polito, Rizzoli 2013). L’autore è un noto giornalista vicino alla sinistra per storia personale (è stato direttore de Il Riformista e vice-direttore de La Repubblica), ma stimolato intellettualmente dall’impossibilità oggettiva, nel contesto partitico italiano, di concedersi un temporaneo sforamento a destra senza tradire le proprie origini e senza passare dall’altra parte della barricata. Siamo nel 2013, l’anno in cui il capo dell’esecutivo tecnico uscente ed ex commissario europeo Mario Monti si candida a palazzo Chigi alla testa di una piattaforma liberale in salsa centrista sfidando gli opposti conservatorismi del Pd bersaniano e della galassia berlusconiana. Il Professore, nel battezzare la sua Scelta Civica, non trova il coraggio di definirla partito “di Destra, nonostante sia chiaramente agganciata, per la natura delle proposte di politica economica e per la collocazione in ambito europeo, alle esperienze di governo di Angela Merkel in Germania e di Mariano Rajoy in Spagna. Essere di destra è un problema, osserva Polito, poiché è essa stessa a non volersi chiamare per nome. Le ragioni storiche e culturali messe in fila dal giornalista vengono argomentate con rigore e passione e per esse rimando direttamente al volume. Ad originare questo mio contributo è il sovrapporsi di tale lettura con l’esplodere delle contraddizioni all’interno di Ncd, il partito di Angelino Alfano nato da una scissione dal Pdl e stabilmente arroccato nel perimetro della maggioranza che sostiene in Parlamento il governo Renzi.

È di qualche giorno fa l’infuocata intervista di un’esponente di spicco del partito quale Nunzia de Girolamo (ex ministro alle Politiche agricole nel precedente governo Letta), che al quotidiano romano Il Tempo proclama: “torno da Berlusconi, non morirò renziana”. Lo sfogo della De Girolamo è chiaramente comprensibile: Ncd, sostiene la politica campana, “era nato per costruire una nuova storia di centrodestra, invece sta andando verso il centrosinistra”. “Almeno cambi nome!”, conclude sardonica. Ai contorcimenti interni al partito, anche sull’onda della presenza sottotono al Meeting di Comunione e Liberazione, ha dedicato un’interessante serie di interviste la rivista centrista Formiche, che tiene sempre magistralmente il polso di quell’area politica. Il quadro che ne emerge è frammentato e pazzotico: il ciellino Vignali suggerisce di continuare la collaborazione con Renzi, Formigoni ammonisce che occorre costruire un centrodestra coeso per riconquistare Milano, il sottosegretario Gioacchino Alfano apre ad un’alleanza con il Pd per le comunali di Napoli, l’emiliano Pizzolante parla addirittura di alleanza strategica con il Pd per “un grande progetto di area moderata”. La confusione in via Poli (nuova sede di Ncd) regna sovrana. Il retroscenista Ettore Maria Colombo di QN arriva a teorizzare l’esistenza di “tre tronconi” all’interno di Area Popolare, che raggruppa Ncd ed Udc: i filogovernativi pronti a passare armi e bagagli con il Pd sotto le insegne di una “nuova Margherita” (Lorenzin, Vicari, Casini e Galletti), i teocon di estrazione ciellina (Lupi, il sottosegretario Toccafondi) e infine i nostalgici del Cavaliere (Formigoni, Giovanardi, Sacconi). A ciò si aggiunge la beffa del cambio di sede per mancanza di fondi, nello spazio che fu della Fli finiana e della Sc montiana. Corsi e ricorsi storici?

L’intemerata della De Girolamo contro quello che è diventato ai suoi occhi un “Nuovo Centrosinistra” spinge ad applicare alla debole e sfilacciata Ncd le categorie della “destra ideale” sintetizzate da Polito alla fine del volume. Sulle macerie di quello che Berselli definiva il “forzaleghismo” è auspicabile, secondo Polito, la nascita di una “Destra nuova”: “si potrebbe azzardare che dovrà essere un partito borghese, dotato di un forte senso dello Stato, un partito nazionale e non nordista, europeista, basato sulla partecipazione e non sulla mobilitazione, dunque un partito democratico e parlamentare”. Andiamo per ordine.

Il partito della borghesia? Ncd è un alleato di governo di Matteo Renzi, il ciclone che ha mandato in soffitta la storica reverenza del Pd nei confronti del mondo sindacale al prezzo di aspre contrapposizioni interne e all’accusa quasi quotidiana di “thatcherismo”.  Con qualche anno di ritardo, il segretario fiorentino sfoggia e difende quell’attitudine pro-business e quella necessaria recisione del cordone ombelicale con i sindacati che hanno fatto la fortuna del New Labour di Tony Blair. Ncd, dal punto di vista del personale politico raccolto sotto le sue insegne in Parlamento, è erede del Pdl e della Forza Italia del “presidente-imprenditore” e self made-man per eccellenza, Silvio Berlusconi. Basta questo per connotarlo come partito di riferimento della borghesia imprenditoriale italiana? Al netto del conclamato fallimento della “rivoluzione liberale” promessa dal Cavaliere e dalla presenza nelle sue file di esponenti che hanno combattuto in passato contro i tabù del mercato del lavoro italiano (uno su tutti, l’ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi), il partito di Alfano sembra vivere di rendita lasciando a Renzi il lavoro sporco. Al premier la contrapposizione con le parti sociali accantonate dalla disintermediazione, ai suoi alleati (eredi di governi che fecero marcia indietro sull’articolo 18 di fronte alla mobilitazione delle piazze e ai “tre milioni” di Cofferati) la possibilità di affermare: “era una nostra battaglia”. Presenza di Ncd nel Nordest delle piccole e medie imprese? Non pervenuta (alle ultime regionali venete il sostegno è andato al leghista eretico Tosi, arrivato terzo).

Senso dello Stato? Le intemerate berlusconiane contro i “magistrati comunisti” e la Corte Costituzionale rossa hanno impedito al centrodestra di identificarsi saldamente con le istituzioni, afferma Polito. Alfano occupa oggi il Viminale, ministero-chiave per eccellenza, di cui è stato inquilino anche il leghista moderato Roberto Maroni. La convinzione nella “sacralità” delle istituzioni rischia però di cedere presto il passo ad un’adesione opportunistica ai benefici e alle prebende ministeriali. Alfano era al Viminale con Letta e ci è rimasto con Renzi, incurante degli scandali esplosi nel tempo (uno su tutti, il rimpatrio forzato della moglie di un dissidente politico kazako che è costato la carriera ad un alto burocrate, senza però lambire il Ministro). Più che per senso dello Stato, l’occupazione delle caselle ministeriali appare finalizzata a costruire sistemi di potere e a rafforzare il proprio peso di alleato minore.

Su europeismo e proiezione nazionale le differenze rispetto alle ambiguità di Forza Italia e al conclamato atteggiamento di sfida verso Bruxelles (con addirittura incursioni nell’area no-euro) della Lega di Salvini sono evidenti ed innegabili. Il richiamo alla cultura popolare di De Gasperi e Adenauer costituisce di per sé una garanzia di europeismo. Il ceto politico riunito dal fondatore Alfano, ricorda giustamente Colombo, è però in gran parte di provenienza sicula, lombarda ed emiliana. Da non dimenticare che alle regionali calabresi del 2014 il candidato di Ncd ed Udc arrivò quasi al 9%, in quella che è la terra del ras delle tessere Tonino Gentile. Ma basterà la fusione di notabilato meridionale e ciellini al Nord (la portavoce nazionale è la bolognese Castaldini) per dare al partitino un autentico profilo nazionale? Salvini stenta a sfondare al di sotto del Po senza il simbolo dell’Alberto da Giussano (emblematico il deludente risultato della lista Noi con Salvini alle regionali pugliesi), ma se si guardano ai numeri è comunque “l’altro Matteo” a dare le carte. Servono ben altre cifre per farsi “Partito della Nazione” contrapposto al Pd renziano.

Infine lo smarcamento definitivo dal modello berlusconiano di “partito carismatico” e la capacità di farsi partito di governo. Pesa come un macigno sull’attuale inquilino del Viminale il velenoso commento con cui l’ex mentore Silvio Berlusconi commentò le sue velleità di successione: “non ha il quid”. Quella mancanza di quid rischia di travolgerlo al momento di ritornare alle urne, quando Renzi giocherà il tutto per tutto per ricompattare il suo riottoso partito intorno alla sua leadership, le varie anime del centrodestra tenteranno di sotterrare l’ascia di guerra per mettere insieme un cartello anti-renziano e i grillini cercheranno, con meno improvvisazione del passato, di arrivare al ballottaggio. Sarà in questo frangente che emergeranno tutti i limiti di un partito nato in Parlamento, dal bacino di iscritti difficilmente identificabile, protagonista di un matrimonio di convenienza con l’Udc di Pierferdinando Casini. La presenza nella maggioranza di governo ha permesso di riassorbire la batosta delle Regionali, ma il tempo rischia di decretare la morte anticipata di quello che doveva essere un Nuovo Centrodestra. Soprattutto ora che, in mancanza di altri cavalli di battaglia non inflazionati dal renzismo, si fa sempre più forte la tentazione di farsi alfiere dei “valori non negoziabili” nel corso del dibattito sulla legalizzazione delle unioni civili. Connotarsi esclusivamente come “partito contro le nozze gay” rischia di ricacciare Ncd in una riserva indiana cattolico-tradizionalista e di metterne a dura prova i rapporti con i partner di governo. Cui prodest?

L’applicazione delle categorie identificate da Polito sembra dunque restituirci l’immagine di un partito che risponde solo in parte ai requisiti di una “Destra nuova”: liberista in quanto a politiche del lavoro ma incapace di intestarsi la leadership su questi temi, dotato di senso dello Stato ma anche incline ad occupare caselle governative per pesare di più nella coalizione, europeista e nazionalista ma senza i numeri per appellarsi al Paese, slegato da dinamiche leaderistiche fondate solamente sul carisma ma allo stesso tempo debolissimo sul fronte della mobilitazione e del radicamento territoriale. Se di Nuovo Centrodestra si deve trattare (e non esclusivamente di stampella ad esecutivi di centrosinistra, come osserva maliziosamente De Girolamo) la missione non si può certo definire compiuta.

Ma se Atene piange, Sparta non ride: quanto è davvero renziano (e dunque nuovo) il Partito democratico? Le minacce della minoranza certificano uno stato di fibrillazione continua che solo il rinnovo delle truppe parlamentari potrebbe disinnescare. Ma il ritorno alle urne appare lontano…

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