Partiti e politici

Ma in Italia Trump ha già vinto da tempo

9 Novembre 2016

Come era prevedibile, il voto shock che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca è stato accolto con sentimenti contrastanti da politici, commentatori e analisti del vecchio continente. C’è chi si accredita la vittoria sbandierando la comunanza di vedute con il nuovo presidente USA su grandi temi come economia e immigrazione, chi vede nel risultato la pericolosa conferma dell’onda populista che ormai investe tutte le democrazie occidentali, chi paragona il tycoon a questo o quel leader del suo paese.

In Italia, tutto questo si contestualizza nella già delirante campagna elettorale sul referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre, con esponenti di entrambi gli schieramenti a inserire (con disarmante disinvoltura) la figura di Trump nella discussione sul superamento del bicameralismo paritario o sulla soppressione del Cnel. Così l’atavico provincialismo di molti centra la sua attenzione su cosa voterebbe Trump se dovesse scegliere il nostro assetto istituzionale, mettendo quasi in secondo piano gli effetti dirompenti che il nuovo corso statunitense avrà sugli equilibri politici ed economici dell’intero pianeta.

In verità, ciò che ha prodotto il magnate che ha spazzato via la “vecchia politica” d’oltreoceano qui da noi ha già vinto da tempo. È la vittoria della rabbia, del sentimento di invidia sociale che cresce esponenzialmente a causa di una lunga crisi economica che sta acuendo le povertà e ridimensionando le aspettative dei ceti medi. E poco importa se Trump sia più simile a un Silvio Berlusconi o a un Beppe Grillo, se abbia più affinità con un Sergio Marchionne o un Denis Verdini (si apprezzi la par condicio). Trump ha già vinto perché in vaste zone del vecchio continente – e l’Italia è una di queste – la politica delle “facce” ha da tempo preso il sopravvento su quella degli ideali, considerati alla stregua della peste bubbonica dopo la fine delle ideologie che hanno animato il secolo scorso.

Ma le “facce” vanno e vengono, se alle loro spalle non c’è nulla può bastare una parola o uno slogan reso virale dalla macchina mediatica per decidere le loro fortune o le loro sfortune. E se questo può funzionare per il marketing, la politica non può permettersi di andare avanti a lungo senza qualcosa di più efficace della mera conquista del consenso, perché in ballo ci sono i destini dei popoli. Se un’automobile o uno yogurt vendono meno del loro equivalente di una marca concorrente, il problema è circoscritto a chi dirige e chi lavora nell’azienda “sconfitta”, ma quando gli sconfitti sono corpi che galleggiano in mezzo al mare, famiglie che non arrivano alla fine del mese e si indebitano, generazioni costrette a una vita precaria, bisogna saper dare delle risposte chiare e “di parte”, che non debbano quindi accontentare tutti, altrimenti l’unica risposta in campo resta la cieca rabbia fomentata dai populismi.

Se ci si sforza a guardare con distacco e onestà intellettuale ciò che sta accadendo, ci si rende conto che “Trump” non vince solo nei deliri del blog di Beppe Grillo o nell’ignoranza di Matteo Salvini che fomenta le disgustose barricate di Goro. Vince anche nei cori da stadio della Leopolda, nei manifesti che invitano a cambiare la Costituzione “per diminuire il numero dei politici” e in tutte le occasioni in cui il ragionamento cede il passo alla rarefazione del pensiero, al trionfo dei bassi istinti, al “Vaffanculo” elevato a manifesto politico.

“Trump” vince perché la politica ha da tempo rinunciato a dare quelle risposte “di parte”, sostituendole con comode “facce” così figlie dei tempi da non saperli governare. In fondo la vicenda statunitense ce lo spiega bene: si passa in una notte dal primo presidente nero della storia a un miliardario xenofobo e sessista, “faccia” contro “faccia”, istinto contro istinto.

L’onda anomala che sta investendo l’occidente arriva dunque nello Studio Ovale della Casa Bianca, buttando giù i castelli di sabbia che la miopia di chi ha puntato tutto sul pensiero corto e sulle “facce” credeva inespugnabili. Forse da domani qualcuno ricomincerà a pensare come ricostruire quei castelli, guidato dall’utopia di farli durare in eterno o dal pragmatismo di farli resistere il più a lungo possibile, in attesa della prossima onda anomala. Da questo punto di vista la storia dell’uomo è assai più monotona di quanto sembri…

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