Partiti e politici
Ma a sinistra come decidete chi è leader e chi no?
Qui si confesserà candidamente che quando l’altro giorno, in un teatro Brancaccio vestito a festa, è stato acclamato il «due senza» Montanari-Falcone come novissimo e ardimentoso equipaggio che avrebbe portato la sinistra alla felicità, il nostro ricorso alla Rete è stato immediato, increduli che la sorella del giudice Falcone avesse mai potuto immaginare un’impresa così disperata. Per cui, quando il dubbio politico si è trasformato in solida ignoranza (sempre la nostra), scoprendo che invece quel cognome apparteneva ad Anna, avvocato amministrativista, definita «la pasionaria» del 4 dicembre, in qualche modo ci siamo rassicurati che ogni cosa, a sinistra, rimaneva saldamente al suo posto. Nel senso che riusciva ancora una volta l’impresa di spezzare la filiera di produzione classica in ulteriori microrganismi, parcellizzando il parcellizzabile, sino a fischiare il Gotor che era lì convenuto in rappresentanza del microrganismo appena un cicinin più a destra e comunque sempre distante anni luce da Matteo Renzi. Insomma, sempre quella storia lì del più puro che ti epura.
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In questo caso, però, la questione che a noi interessa non è tanto la storica capacità della sinistra di farsi del male. È sotto gli occhi di tutti, ognun se la goda. Ci interessa piuttosto capire cosa pensa questa sinistra (che si contrappone senza se e senza ma al segretario del Partito Democratico) rispetto alla formazione e alla costruzione di un leader politico. Temiamo che questa sinistra cosiddetta radicale abbia del giornalismo e di conseguenza della formazione del consenso, un’idea assai bislacca e credulona. Per non girarci intorno: la signora Falcone e il signor Montanari credono davvero di poter rappresentare un approdo di un qualche valore elettorale sol perché acclamati in Roma, teatro Brancaccio, e poi celebrati sin troppo generosamente (come spazio e come aggettivi) dai quotidiani nazionali in cerca di buchi politici da tappare? Le loro parole testuali di quel giorno, rispetto all’ipotetico bacino elettorale, parrebbero confermare questo sospetto, se è vero che all’avvocato Falcone sembrava normale attribuirsi una missione dai larghissimi confini: «Noi abbiamo un mandato da quel 60% che ha votato No alla riforma costituzionale, quello è il nostro bacino».
A questo punto, sembra normale farsi una semplice domanda: chi può considerarsi leader in questo benedetto Paese, per volontà di chi, per passione di chi, per convinzione politica di chi? C’è forse un merito che ne determina le coordinate? Bene, se c’è Matteo Renzi è certamente un leader perché ha combattuto, ha vinto benissimo, ha perso malissimo, ha conquistato un partito con doppie primarie, ha tracciato inizialmente una strada da percorrere e poi ha perso la bussola, ma insomma è pienamente nel diritto di essere considerato (ancora) in partita. Sempre se vale il merito, beninteso. Stessa storia, anche se in tono minore, per Giuliano Pisapia al quale va sicuramente ascritto il capolavoro visionario della Milano liberata e cinque anni di buon governo cittadino. Ora che Pisapia si lancia nell’agone nazionale, la comunicazione politica che lo riguarda parte esattamente da lì, da una base sufficientemente solida per essere considerato, anch’egli, in partita (anche se la sua costruzione/comunicazione nazionale manca ancora di molti segmenti).
La liceità di un leaderismo possibile: si può dire che oggi basta occupare uno spazio (vuoto) mediatico per attribuirsi un ruolo politico? Al professor Montanari, apprezzato storico dell’arte, questa dinamica anche un po’ perversa certamente non sfuggirà e forse lo porterà un giorno a non entusiasmarsi troppo per le decine e decine di interviste che gli vengono richieste sui temi politici in luogo delle condizioni molto precarie del nostro patrimonio artistico. Si potrebbe persino concludere che proprio la sua brillantezza professionale, nel campo dove primeggia, l’abbia spinto a considerarsi indispensabile anche nell’altro campo, quello politico, dove probabilmente, alla prova dei fatti, non lo voterebbero che pochi appassionati d’arte. Un contrappasso sin troppo crudele. Che ricorda in molto piccolo la novella di Antonio Di Pietro, celebratissimo censore giudiziario, e per qualche anno autorizzato frequentatore del Transatlantico. Quanto all’avvocato Falcone non la si vorrebbe illudere troppo sulla coincidenza/incidenza di passioni costituzionali acclarate e riconosciute, rispetto al trionfo di quei tantissimi No del 4 dicembre e non è esattamente detto che eserciti di No abbiano seguito il suo magico piffero sino ai seggi elettorali.
Per dire, alla fine, che il leaderismo è una cosa sin troppo seria. Che nasce e cresce certamente su passioni forti – e qui teoricamente saremmo tutti in partita – ma che poi si sedimenta e si trasferisce agli “altri”, i possibili elettori, con una matematica precisione. Comprendendovi naturali doti di affabulazione, di capacità di analisi, di visione, di comprensione dei fenomeni e tanto altro ancora. Ma che ormai, caduti i muri, vive soprattutto sul sentimento più incisivo: la propria dimensione politica (la propria dimensione politica). Che non è piegata semplicemente sugli errori dell’avversario, né vive specularmente la vita di Matteo Renzi come un ossessivo reality h.24. Quella è la vita degli altri. La sinistra che vince vive la «sua» vita.
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Foto tratta dalla pagina Facebook Un’alleanza popolare per la democrazia e l’eguaglianza
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