Partiti e politici
“L’ultimo partito”: il viaggio al termine del Pd di Natale e Fasano
A dieci anni dalla nascita, arriva il tempo di fare bilanci. Può anche essere già il momento di prepararsi a un commiato definitivo?
È in fondo questa la domanda che attraversa tutte le pagine de “L’Ultimo Partito”, un viaggio compiuto nella storia del Pd dalla fondazione a oggi dal “nostro” Paolo Natale e da Luciano Fasano, con Francesco Capuzzi e Nicola Martocchia Diodati, pubblicato da Giappichelli in occasione, appunto, del decimo compleanno del Partito Democratico stesso. Utilizzando le categorie politologiche e un’importante mole di dati elettorali e statistici, i due studiosi ripercorrono una storia del Pd che è anche la storia del sistema politico italiano dell’ultimo decennio. Il loro libro, dunque, è anche l’occasione per guardare com’eravamo e come siamo diventati, prima di azzardare ipotesi e previsioni sul futuro della nostra politica.
La scelta degli autori, anzitutto, è quella di analizzare le stagioni del Pd scandendone la storia in tre fasi, ciascuna segnata dalle personalità dei segretari che lo hanno guidato, e cioè Veltroni, Bersani e Renzi. Un partito, ogni partito, si specchia e si definisce anzitutto nel proprio consenso e nel suo corpo di elettori. Ogni partito si misura sulla capacità di amministrare nelle realtà locali, e nella capacità di far funzionare i propri strumenti di democrazia interna, come le primarie, e i suoi organismi decisionali e direttivi, come segreteria e direzione. Ogni partito, ancora, si misura con la sua capacità di eleggere parlamentari e di valorizzarne al meglio il lavoro. Sono proprio questi parametri che, dal partito di Veltroni fino a quello di Renzi, sono analizzati dagli autori per raccontare la storia del Pd. Il “partito amalgama” di Veltroni, dopo la reggenza di Franceschini passa a Bersani, dove assume i tratti del partito “old-style”, prima di cercare i tratti del “partito pragmatico”, di fatto plasmato attorno alla sagoma dell’esperienza di governo, con Matteo Renzi. Il viaggio che inizia con Veltroni, con il Prodi dell’Unione faticosamente al governo, è dunque anzitutto un viaggio nel tempo.
Che comincia in un’era – non remota, eppure lontanissima – in cui prevaleva la spinta a un bipolarismo tanto netto da prefigurare addirittura un bipartitismo. Sembrava compiersi, attorno alla metà del primo decennio del nuovo millennio, un percorso iniziato con la fine della prima Repubblica e i referendum di Mario Segni. Il lungo cammino sembrava conoscere l’accelerazione definitiva proprio con la nascita del Pd, formalmente registrata nel maggio del 2007 e poi sancita con le prime “primarie aperte” per l’elezioni del segretario, nell’Ottobre dello stesso anno, che videro trionfare Walter Veltroni. Fu proprio la nascita del Pd a spingere un’analoga spinta aggregativa, anche nel campo opposto quello di un centrodestra solidamente egemonizzato da Silvio Berlusconi, che proprio in vista delle elezioni del 2008 lancia, dal famoso predellino, il Popolo della Libertà.
La storia per dati e numeri ben ricostruita da Fasano e Natale dimostra molte cose. La prima, sicuramente, è che la malcelata speranza che, finito il berlusconismo più ruggente, il Pd avrebbe finito con l’ereditare naturalmente il governo del paese era davvero mal riposta, come lo sono sempre le speranze che si fondano, in politica, sulla morte degli altri invece che sul proprio lavoro. Fa amaramente riflettere, ad esempio, a chi in quella storia politica ha creduto o crede ancora, che il miglior risultato in termini di elettori assoluti, il Partito democratico lo abbia raccolto con Veltroni, alle politiche del 2008, in occasione di una sconfitta dalle proporzioni comunque nettissime. Per il resto, epurata da picchi che sono sembrati, se visti in prospettiva, più episodi isolati che non segnali di un trend di crescita (si pensi alle Europee del 2014%), la storia del Partito Democratico sembra la storia di un partito la cui base è andata costantemente assottigliandosi. Sepolta con le dimissioni di Veltroni l’idea di superare per sempre gli schemi novecenteschi, con Bersani il Pd-ditta si è rintanato nel perimetro non autosufficiente – anzi, del tutto insufficiente – di un partito socialdemocratico fondato sulle ceneri del comunismo italiano “appena” vent’anni dopo la caduta del muro di Berlino. La speranza, non priva di riscontri concreti, di incrociare finalmente una società in cambiamento profondo incarnata da Matteo Renzi sembra già preistorica, se guardata dal fondo del guanto rovesciato in cui ci troviamo oggi.
Uno dei tratti costanti del Pd, si legge nel libro, è quello di aver ingenerato aspettative che non ha saputo mantenere. È evidentemente, spietatamente vero. Tra le più gravi mancanze c’è, sicuramente, quella di saper rappresentare e interpretare la società in maniera flessibile, certo attranedone il consenso dentro l’alveo del centrosinistra, ma anche interpretandone le domande, i cambiamenti profondi, perfino le rabbie. L’idea nuova, per l’Italia, di un partito riformista di massa, che aveva in testa Veltroni e che in qualche modo portò una messe importanti di consensi, ma proprio in coincidenza con l’apogeo del berlusconismo, viene archiviata da un Bersani che si guarda troppo indietro, e non viene davvero rinverdita da Renzi. Uguali e speculari, in queste due stagioni, sono gli approcci dei leader alla classe dirigente. Arrocchi identitari troppo stretti, dopo i tentativi – magari troppo larghi e imprecisi, ma sinceri – di apertura operata da Veltroni.
E dunque, la domanda: è tempo di un bilancio magro, ma che può migliorare, oppure è ora di preparare il canto funebre? Michele Salvati, il padre nobile per eccellenza del partito democratico, nell’introduzione spiega che il finale non è ancora scritto. Che il destino del Pd non è ancora segnato. Solo il tempo dirà se il suo auspicio troverà teste pronte e pazienti. Solo col tempo sapremo: e la sensazione, comunque, è che non serviranno altri dieci anni, per sapere.
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