Partiti e politici
L’ultima novità del renzismo: l’analisi della sconfitta
La cosa più drammatica è che, dall’arrivo di Renzi in poi, ci si è trovati spesso a dover fare la difesa d’ufficio della (ex?) classe dirigente diessina, a dover riconoscere la funzione storica e politica di una liturgia di partito che i compagni alla sinistra del fu Pci hanno sempre (e giustamente) contestato, spesso anche in maniera molto dura.
Non è una questione di nostalgia, né di cambio di posizione o di puro e semplice astio: è, più banalmente, una presa d’atto. In politica si può perdere sempre, si può sbagliare l’analisi, si possono lanciare candidati inadeguati e movimenti privi di speranza già in partenza. Una sola cosa non è ammessa: sbagliare la lettura della fase. Un errore del genere vuol dire morte, distruzione, pestilenza.
In altre parole, il problema serio è che il Pd di Matteo Renzi è illeggibile, non si capisce bene cosa sia e cosa voglia essere, dove voglia andare a parare, cosa voglia rappresentare nell’attuale fase storica e politica. Il segretario è anche il presidente del Consiglio dei Ministri, e non è molto chiaro quando sia in esercizio una funzione e quando l’altra. I tesserati non contano più niente, scavalcati dalle primarie che ormai sono soltanto lo strumento con cui i capibastone e i cacicchi locali scavalcano l’apparato e impongono il proprio gioco, spesso al di là di ogni logica. Le sezioni sono sparite, evaporate, dissanguate, dissolte: sui territori il Pd risente molto di questo fatto, se è vero com’è vero che alle amministrative di domenica scorsa il partito ha perso ovunque svariati punti percentuali. Non c’è più il controllo dei militanti, figuriamoci quello degli elettori. Enrico Berlinguer aveva scritto molto su questo punto: accentrare il potere vuol dire toglierlo dalle periferie dell’impero, con effetti catastrofici in termini di consenso e credibilità. E adesso, con le amministrative che sono andate maluccio, il renzismo si trova a dover fare i conti con un fenomeno mitologico e comunque noto ai più, ma a lui quasi del tutto sconosciuto: l’analisi della sconfitta.
È inutile fare quello che sta facendo adesso l’apparato democrat, piegando i fatti alle proprie opinioni e dicendo, con notevole faccia tosta, che, in fondo, il Pd governa ancora nella stragrande maggioranza dei Comuni. Come se le comunità montane fossero più importanti di città come Roma, Torino, Milano, Bologna o Napoli. E basta andare a guardare la situazione un po’ più nello specifico (anche senza esagerare) per rendersi conto che il partito non è alla frutta, ma proprio all’ammazzacaffè, sul punto di scoppiare e diventare soltanto un’unione di comitati elettorali interessati a mantenere il potere centrale a scapito di tutto e di tutti, senza soluzione di continuità.
A Roma, Roberto Giachetti è chiamato a fare un’impresa impossibile che probabilmente non riuscirà a portare a termine: Virginia Raggi è troppo distante e già all’inizio di questa campagna per il ballottaggio appare sulla strada della vittoria più che su quella dell’autogol. Per dire, mentre l’apparato renziano si sta preoccupando di sottolineare il pessimo risultato di un «perdente di straordinario insuccesso» (questa l’ho rubata al sommo Michele Fusco, nda) come Stefano Fassina, la candidata grillina evoca gli elettori della sinistra, corteggiandoli e cercando di farli sentire importanti, cosa che, sia detto per inciso, non fa più nessuno da almeno quindici anni. Giachetti, dal canto suo, non vede proprio la palla e ripete come un mantra il discutibile concetto in base al quale «noi sappiamo governare, gli altri no». Le ultime esperienze amministrative nella Capitale dicono il contrario, ma non fa niente. Se questa comunque sarà la linea tracciata per cercare la rimonta, come si dice a Pasqua e Natale: auguri.
A Milano, tramontata l’esperienza arancione di Pisapia, il candidato del Pd Beppe Sala rischia brutto: il vantaggio sullo sfidante Stefano Parisi è minimo e la partita si giocherà fino all’ultima scheda. Un particolare: qui a mettere in crisi il centrosinistra non è stato, come qualcuno pure si aspettava, Matteo Salvini, bensì gli ultimi reduci del berlusconismo. Il risultato di Forza Italia è stato strepitoso ed è proprio nel non aver saputo leggere questa crescita che l’apparato democrat meneghino ha commesso un colossale errore di fase. Ci si aspettava l’attacco dalla destra populista e allora si è scelto di candidare un moderato come Sala, e invece non solo sono evaporati i voti di sinistra, ma la sfida sul campo moderato è finita sostanzialmente pari laddove ci si aspettava un’affermazione netta.
A Torino c’è il disastro: in una roccaforte storica della sinistra, il Movimento Cinque Stelle è primo partito e il candidato democratico Piero Fassino non è riuscito a sfondare, né ad avvicinarsi troppo alla fatidica soglia del 50 più uno percento dei consensi che gli avrebbe consentito di vincere al primo turno. Il risultato era atteso, ma se la sinistra-sinistra di Giorgio Airaudo si è fermata al 3% o giù di lì, dove sono finiti i voti? Banalmente: alcuni sono rimasti a casa, altri sono andati dritti dai grillini. Per tornare alle detestabili ma rimpiante liturgie di partito: una volta la sconfitta a Torino non avrebbe portato solo verso un congresso anticipato, ma probabilmente addirittura al taglio della testa (nella migliore delle ipotesi solo metaforico) dell’intero gruppo dirigente.
A Bologna, altra storica roccaforte, il candidato Virginio Merola non è arrivato nemmeno al 40%, e le sue possibilità di vittoria sono aggrappate al fatto che la sua sfidante viene dalla Lega Nord e non è del Movimento Cinque Stelle. Il clima che si respira è tutto un programma, con il candidato sindaco che, interrogato su un possibile ritorno di Matteo Renzi in città per chiudere la campagna elettorale, ha risposto così: «Speriamo di no, già avremo problemi con Salvini…».
A Napoli, infine, la situazione è imbarazzante: per la seconda volta consecutiva, il Pd non è riuscito a raggiungere manco il ballottaggio, spazzato via dal ‘populismo di sinistra’ (che comunque Ernesto Galli Della Loggia qualche giorno fa elogiava a sorpresa sulle colonne del Corriere della Sera) di Luigi De Magistris. Lo storico Gianpasquale Santomassimo suggerisce che la sinistra avrebbe bisogno «di grigliate e non di apericene», sottintendendo che ormai il famoso popolo non capisce più le parole della forza politica che dovrebbe (vorrebbe) rappresentarlo. Per questo ci si aggrappa agli eccessi da comizio di De Magistris («Renzi si deve cacare sotto») e si trascura il punto centrale della faccenda, ovvero che oltre alla propaganda, a volte, c’è anche altro e che i cittadini, spesso, se ne accorgono pure: da qui la sconfitta. L’idea, a questo punto, sarebbe quella di commissariare il partito partenopeo calandoci sopra Ernesto Carbone, quello del «ciaone» al referendum sulle trivelle. Insomma, la risposta alla bocciatura del renzismo sarebbe «più renzismo», che è una versione moderna (e presa sul serio) della battuta fatta da Bertolt Brecht dopo la rivolta degli operai di Berlino Est del 1953: «Il Comitato centrale ha deciso, poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo».
Il problema è che il partito a trazione renziana è stato punito dalla sua sinistra, dagli elettori storici che hanno sempre votato Pci-Pds-Ds-Pd e che, per larga parte, questa volta non se la sono sentita di andare alle urne. Altro che «nessun significato nazionale» del voto amministrativo, come da vulgata della segreteria democrat: ai seggi è andata in scena la sfilata della delusione progressista.
A Cagliari, tanto per dire, ha vinto al primo turno Massimo Zedda, già uomo di Nichi Vendola e molto vicino a Sel. Nel capoluogo sardo (storicamente di destra) la coalizione vincente è di centrosinistra – quello senza trattino – e il candidato è un ragazzo di sinistra-sinistra. Magari non un bolscevico, ma «renziano» a Zedda non gliel’ha proprio mai detto nessuno. Sarà un caso.
Twitter: @oiramdivito
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