Partiti e politici
L’Italia del rugby è un ottimo opaco ritratto della nazione italiana
La politica e i suoi leader hanno bisogno di ispirazioni e lo sport ne regala molte: il mese di settembre è stato generoso con gli spin doctor e gli addetti alla comunicazione italiani grazie alla finale tutta azzurra dello US Open di tennis tra Flavia Pennetta e Roberta Vinci e con la sorprendente vittoria dei giapponesi sui sudafricani nelle prime battute della Rugby World Cup. Il successo dai samurai guidati dalle mani sapienti del coach Eddie Jones (la tua mischia è più leggera di quella avversaria? Gioca palla veloce; i tuoi uomini sono fisicamente inferiori? Spediscine tre su ogni placcaggio e approfitta della loro maggiore disciplina nell’area del break-down) è finito di diritto tra gli argomenti dell’ennesima direzione del Partito democratico per bocca del presidente del Consiglio, Matteo Renzi.
L’Italia purtroppo non verrà presa in considerazione, uscita mestamente dal torneo dopo la sconfitta di domenica contro l’Irlanda durante la quale almeno ha mostrato, nel suo piccolo e tra alcune pecche come la rimessa laterale, un po’ di rugby. Attendersi il passaggio del turno in un girone in cui compare anche la Francia era inopportuno, considerando specialmente lo scarso stato di forma degli Azzurri.
L’Italia non sarà d’ispirazione in qualche discorso, ma è un buon ritratto di questo paese, lo si ammetta: non siamo da Six Nations – non è una provocazione, è un’affermazione che certamente farà storcere il naso alla retorica, ma se gli scozzesi sono gli ultimi del Five Nations, noi siamo probabilmente la prima delle nazionali emergenti -. Lo siamo stati, da Six Nations, con la rincorsa guidata da una vecchia guardia che non ha sostituti nonostante il rugby goda di maggiore popolarità: se oggi gli appassionati dell’ultima ora sanno con esattezza chi è, per esempio, Diego Dominguez, un motivo ci sarà. Da allora piuttosto cerchiamo un’apertura che non pare non esserci o, se c’è, la nascondiamo molto bene.
In quindici anni di Six Nations siamo rimasti a misurarci esclusivamente con la Scozia, dopo cinque di Celtic League con due club (Treviso ininterrottamente e con Aironi prima e Zebre poi) ci si domanda se ne sia valsa la pena sia sul piano del gioco che su quello qualitativo (una volta un paio di giornalisti francesi atterrati per seguire un incontro di Heineken Cup chiesero all’interlocutore come mai disputassimo i match ancora in stadi di campagna, ma non ottennero una risposta convincente per motivi di imbarazzo). Gli abbonamenti alle sconfitte onorevoli non si contano, le vittorie nemmeno.
Sergio Parisse non è purtroppo eterno, gli anni passano per Martin Castrogiovanni, Marco Bortolami non è più nel giro della nazionale, Andrea Lo Cicero ha chiuso la carriera levandosi qualche sassolino dalla scarpa su un presunto clan argentino all’interno del gruppo che fa e disfa, Mauro Bergamasco è alla fine del viaggio in azzurro e ci sarebbe un altro guerriero pronto prenderne il posto come Simone Favaro, ma è spesso tenuto ai margini. Ogni quattro anni, in occasione del Mondiale, l’Italia si presenta all’appuntamento con la testa piena di dubbi e incomprensioni: il passato non torna e il futuro non è né chiaro e né definito.
L’allenatore Jacques Brunel, conclusa la spedizione in Inghilterra, dovrebbe cedere il testimone a Conor O’Shea, director of rugby dei London Harlequins: il massimo per chi, come l’Italia rugbistica, ha due sole dimensioni su tre – e a mancarci è quella alta. La dirigenza della Fir è criticata aspramente per la gestione del movimento e l’assenza di piani a lungo termine e lo scazzo con i giocatori sui premi prima dei ritiri in preparazione al campionato aveva un che di surreale e tafazziano. Per la cronaca, anche Eddie Jones sarebbe disoccupato dopo la RWC.
Una decrescita infelice, tanto per dire che l’Italia rugbistica è un ottimo ritratto dell’Italia in sé. Scomodo, certo: sarà per questo che non finisce in alcun discorso.
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