Costume
L’insostenibile leggerezza del leader
Tra le vecchie figure professionali a rischio di sparizione, di certo, non si può includere il leader, anzi. Sebbene, colpa del mercato, sia anch’esso, al giorno d’oggi, in ostaggio della precarietà.
Non a caso, assistiamo di frequente alla costruzione di leadership in grado di durare solo pochi attimi. Con giganti che si rivelano sin troppo facilmente ombre di nani allo scadere del celebre quarto d’ora warholiano.
Tuttavia, dobbiamo ammettere, soprattutto grazie all’accanimento terapeutico della media-sfera, che almeno i leader politici, tra le miriadi di leader disponibili, riescono a ritagliarsi quote di longevità ancora ragionevoli. Addirittura, alcuni di essi riescono a sopravvivere nell’immaginario collettivo in qualità di leader malgrado, di fatto, non li segua più nessuno, nemmeno i loro fedelissimi. Oppure, malgrado non abbiano combinato granché in termini di risultati, in special modo per il loro elettorato di riferimento.
Pensiamo, nel primo caso, a Matteo Renzi, alla sua eccitazione neocentrista, al suo smisurato autocompiacimento e al suo effettivo peso elettorale, stimato intorno al 4%: poi, che l’eccitarsi per il neocentrismo somigli parecchio all’eccitarsi per uno 0-0 con 0 tiri in porta è un altro discorso…
Nel secondo caso, pensiamo, invece, a Matteo Salvini. Nullo sulle politiche migratorie, suo cavallo di battaglia, e vittima di cervellotiche e autocomplottistiche peripezie. Da peripatéia: mutamento rapido e imprevisto di una situazione.
Ebbene, costoro, quantunque dissimili per sondaggi e toni, risultano, a un occhio attento, molto prossimi sue due aspetti fondamentali che dovrebbero indurci a riflettere, senza remore e con la massima ampiezza possibile, sulla reale sostanza leaderistica del leader contemporaneo.
In primis, ciò che li accomuna è una cieca ambizione, avulsa da qualsivoglia contorno strategico di lungo respiro: ad esempio, l’affidarsi alla fortuna, pur con modalità diverse, in un tentativo fallimentare di ascesa politica da svolgersi in tempi rapidissimi.
In tal senso, ricordiamoci che qualunque cosa resista allo sforzo di previsione degli eventi appartiene inequivocabilmente all’ambito della fortuna e il lavoro del leader, nell’accezione alta del concetto, dovrebbe rivolgersi proprio al superamento di tale resistenza. Dovrebbe, appunto.
In secondo luogo, la comunanza del renzismo e del salvinismo tende a concretizzarsi, aspetto che forse più inquieta, nel continuo attentare all’intelligenza del votante allo scopo di ingraziarsi il votante.
D’accordo, magari “attentare” è un vocabolo troppo muscoloso. Sostituiamolo con “scavalcare”.
Sta di fatto che lo sventolio di bambine in pubblico, il baciare crocifissi e il parlare di “un nuovo partito allegro e divertente”, lasciano trapelare, in maniera palese, una considerazione del destinatario decisamente bassa. La quale dovrebbe indurre il medesimo, una volta riattivate sinapsi e dignità, a rivolgersi altrove inorridito. Dovrebbe, appunto.
Invece, questa fantastica coincidentia oppositorum nella linea comunicativa, che per definizione scavalca l’intelletto, sembra funzionare a meraviglia. Viene addirittura considerata una virtù dagli addetti ai lavori, e non la più indecente.
Il che sposta drammaticamente il terreno dello scontro. Non più tra scuole di pensiero, ma tra scuole di emotività. Tra gastroretorica e cardioretorica, tra salvinitudine e renzitudine, tra un bullismo sedicente solerte e un ottimismo stantio. Con la politica al servizio della propaganda e non viceversa.
E se il nuovo paradigma della partecipazione democratica pare risolversi quasi per intero in una partecipazione emotiva allo stato brado e l’orrore, intanto, tarda ad arrivare, forse, dovremmo interrogarci, a partire dai leader in circolazione, su cosa abbiamo fatto di male per meritarceli.
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