Partiti e politici
L’infinita questione morale, la Costituzione a misura di premier e altri passati
La settimana politica che ci lasciamo alle spalle e quelle che abbiamo davanti, che ci porteranno fino al voto europeo del 9 giugno, hanno un sapore di cose antiche, non necessariamente buone. Mentre Giorgia Meloni ha celebrato la 95esima adunata nazionale degli Alpini, l’infinita questione morale della politica italiana continua a bussare nelle case degli italiani, e lo ha fatto passando per quella che ormai è la sua via maestra: le amministrazioni regionali. È la Liguria di Giovanni Toti, questa volta, e segue a ruota la Puglia, in una Via Crucis ormai ultradecennale che mette in fila uno dopo l’altro molti presidenti, autoprocalmatisi “governatori”, di Regioni di ogni latitudine nazionale. La questioni ligure sembra invero più seria, dal punto di vista giudiziario e della morale politica, e il passare dei giorni e la maggior conoscenza dell’inchiesta mostrano uno spaccato sicuramente preoccupante per la gestione della “cosa pubblica”, e in particolare per il bene più prezioso di una Regione come la Liguria: le sue coste, il suo mare.
Della vicenda colpiscono diversi elementi e, in attesa di comprendere le effettive responsabilità penali degli attori coinvolti, meritano di essere evidenziati perché riguardano sicuramente la Liguria e la sua classe dirigente, ma illuminano anche un sistema di rapporti, di regole e di posture politiche che possono parlare con altri accenti, in alto e in basso, lungo tutto lo Stivale. I soldi per fare politica e propaganda politica ce li mettono i privati. I politici si inventano strumenti per raccoglierli, spesso sono Fondazioni. Molto raramente i privati che finanziano questo o quel partito lo fanno perché credono “a un’Italia migliore”, anche se quasi tutti lo dichiarano. Quasi sempre scelgono soggetti che stanno amministrando, forse amministreranno, o hanno leve di potere per cambiare il corso delle cose o spingere modifiche normative. Ad Aldo Spinelli va riconosciuta almeno la franchezza di chi non si atteggia a filantropo, oltre che la tigna di chi a ottantaquattro anni ha ancora incredibilmente voglia di continuare a fare soldi. Si dice da molte parti e con molte ragioni: “torniamo al finanziamento pubblico”. Già. Ma come si spiega a un popolo ormai ostile alla politica, e ampiamente indifferente a scandali e scandaletti, che è interessi di tutti che siano le tasse di tutti, appunto, a pagare l’attività politica di tutti i partiti, anche di quelli che mai il singolo contribuente voterebbe? Difficile. L’inchiesta parla anche di un’altra cosa: la possibilità che hanno le giunte regionali, organismi dotati di molti poteri e di pochi contropoteri, di decidere in autonomia, di rallentare o accelerare le pratiche, a seconda dei desideri, “dei meriti e dei bisogni” di finanziati e finanziatori. Far passare in fretta a chi ha “meritato”; rallentare se invece sulla sua barca si è portato un avversario.
Naturalmente questa discrezionalità nell’accelerare e frenare, che equivale in fondo a poter decidere se, come e quando concedere o negare opportunità di far impresa e affari, costituisce di per sé un sistema di regole che sembra fatto apposta per costruire anse piene di zone grigie. Bisognerebbe pensare anche a questo, e riformare radicalmente questo meccanismo che nella pubblica amministrazione continua a operare a molti livelli, ma anche questo è difficile, in un tempo che tutto semplifica, e popolato da una classe politica che vuole poter continuare a decidere in modo arbitrario e non trasparente, quando finalmente gli tocca in sorte di esercitare il potere. Così, la vicenda ligure seguirà il suo corso, Toti forse resisterà, o più facilmente cadrà anche per disinteresse della presidente del Consiglio, e sarà solo l’ultima fermata della Via Crucis, fino a quando non diventerà la penultima.
Sarebbero queste le riforme delle quali ha bisogno il paese, assieme a una rinnovata attenzione per l’etica pubblica. Ma di queste riforme non si parla mai, perchè faticose e poco remunerative (in tutti i sensi), mentre si parla con insistenza quasi compulsiva di riforme costituzionali. Non che queste si siano mai rivelate particolarmente vantaggiose, in termini di consenso, per chi le propone, ma evidentemente continuano a stimolare la fantasia di chi si trova al comando. Che sia desidero di passare alla storia, sincera illusione che dalla forma costituzionale dipenda davvero la maturità del paese, o turpe voglia di superare l’antifascismo scritto nel DNA fondativo della Repubblica: sia come sia, anche Giorgia – come ci ha chiesto di chiamarla – appena può parla del “suo” premierato, che vorrebbe ridare potere pieno al popolo elettore nel decidere chi governa. Quello che le Giorgie non dicono è che, se la memoria non ci inganna, a costituzione invariata e con una legge elettorale potenzialmente aperta a ogni inciucio, come questa, è ben possibile che chi si candidava a governare con una coalizione si trovi effettivamente a poterlo fare, e con quella coalizione. Se non mi confondo – cosa sempre possibile, per carità – è proprio quel che sta succedendo a lei, e dovremmo parlare serenamente dei risultati del suo governo, delle scelte di fondo, delle promesse fatte, di quelle che si possono materialmente mantenere. Giusto per ricordare che vincere e governare si pùò, perfino adesso. Ma noi parliamo d’altro, come sempre. Omettendo di dire che, peraltro, il cammino di questa riforma costituzionale è tutt’altro che avanzato e spedito: ma sembra far comodo a tutti, maggioranza e opposizione, raccontare che “ci siamo”, in modo da potersi dividere nettament da qui al 9 giugno. Come se, davvero, agli italiani importasse così tanto del premierato.
Mentre noi parliamo di cose importanti ma inutili, ci sarebbero cose importanti da discutere davvero. Ad esempio, di quale posto nel mondo vuole il nostro paese ricoprire, e di quali decisioni a livello internazionale vogliamo davvero rappresentare. Nella settimana in cui si è votato per l’ammissione della Palestina all’Assemblea delle Nazioni Unite, un passo politico e simbolico importante verso il riconoscimento dell’indipendenza pieno di uno Stato palestinese, abbiamo saputo che l’Italia si è astenuta, come molti altri importanti partner europei, e sui giornali abbiamo assistitio alla solita ridda di opinioni contrapposte tra chi dice che è un favore ad Hamas e chi invece lamenta assenza di abbastanza coraggio, quello che sarebbe stato necessario per votare a favore. Sarebbe stato bello, invece, un dibattito pubblico vero sul perchè di quel voto, e in quale prospettiva di ragionamento strategico e politico dentro all’Unione Europea. Sarebbe stato bello poter parlare dell’ipotesi di un paese – la Palestina – diviso in due territorialmente, con quel che resta di Gaza in mano a quel che resta di Hamas, e con la Cisgiordania bucherellata di colonie e ancora retta – per modo di dire – dalla corrotta leadership dell’autorità Nazionale Palestinese. Sarebbe sempre bello parlare seriamente delle questioni serie, e capire cosa ne pensano davvero i nostri ministri. Ma delle questioni importanti e noiose non si parla neppure in piena campagna elettorale per il Parlamento Europeo, che pure sarebbe il luogo giusto per far valere un’ambizione non puramente velleitaria di politica estera.
Seguendo un copione che ormai sembra scritto nella pietra, e per concludere, anche questa settimana è stata attraversata da una polemica sulla RAI e sullo sciopero indetto dai suoi giornalisti, e sabotato però da un nuovo sindacato vicino alla maggioranza di governo. Così, seppure in forma ridotta, il Tg1 e il Tg2 sono andati in onda, e a scioperare è stato solo il Tg3. Sui giornali abbiamo letto ampi e dettagliati retroscena nei quali si spiegava che il direttore del Tg1 in persona, Gian Marco Chiocci, professionista storicamente vicino per legami personali alla destra di Giorgia Meloni, si è speso direttamente perchè il suo tg andasse in onda a “a ogni costo”. Una volta qualcuno avrebbe chiesto se era vero che il capo struttura, un lavoratore tra i lavoratori, si adoperava per fare fallire uno sciopero. Una volta, quando non c’era Lei.
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