Partiti e politici
Le primarie liguri: come è stata chiusa la vicenda?
Le primarie liguri hanno sollevato due questioni. Dubbi sulla regolarità del voto, e una controversia – principalmente sulle alleanze per il governo della regione – sotto la quale si percepisce lo scontro tra linee politiche confliggenti. Qui tratto solo la prima questione, ma tocco la seconda nella nota 3.
La vicenda è nota. Già prima del voto Sergio Cofferati paventa brogli. Raffaella Paita vince. Cofferati denuncia irregolarità. Paita le nega ma ne segnala altre. La magistratura s’interessa di due seggi. Il collegio dei garanti del Pd ligure riceve 29 ricorsi. Ne accoglie 13, riducendo il divario tra i candidati. Lo stesso giorno il Pd proclama eletta Paita. Il passaggio decisivo è la decisione del collegio. Presieduto da un ex giudice costituzionale e composto da altre quattro persone «di provata esperienza e riconosciuta autorevolezza ed imparzialità», il collegio è una sorta di organo giudiziario. Ed è credibile: nessuno, pur nel fuoco della polemica, ha messo in dubbio la sua correttezza e indipendenza. Neppure io lo faccio, e passo alla sua decisione.
Il criterio di giudizio è sempre questo: se l’irregolarità denunciata risulta dal verbale di seggio il ricorso è accolto, altrimenti è respinto [1]. Questo criterio può destare perplessità. Per quanto affidabile, infatti, il verbale può registrare solo ciò che accade nel seggio o lì davanti: ma raramente chi compra voti li paga di fronte agli scrutatori, ad esempio. La critica sarebbe sbagliata, tuttavia, poiché se un ricorso non è sorretto da prove credibili il collegio non può ignorare il verbale in base alla sola parola dei ricorrenti; e siccome assumo la sua correttezza devo presumere che nessuno dei sedici ricorsi rigettati si reggesse su prove credibili. Inoltre, le regole non chiedevano al collegio di fare una propria indagine per capire se, al di là delle prove presentate dai ricorrenti, le irregolarità c’erano davvero. Quindi sin qui tutto bene.
In ciascuno dei tredici casi in cui ha accertato delle irregolarità il collegio ha annullato il seggio, ossia ha annullato tutti i voti espressi nel seggio. Le regole, se le ho intese bene, gli chiedono solo di «far cessare la violazione e ristabilire la parità di condizioni fra i candidati» [2]. La scelta di usare sempre e solo quel rimedio è quindi attribuibile al collegio, ed ha condotto a esiti irragionevoli.
Il collegio ha annullato cinque seggi solo perché vi aveva votato qualcuno – sei e nove persone, in due casi, e numeri imprecisati (e.g., «alcuni») negli altri tre – che non aveva diritto al voto (perché «di centrodestra» [3], o perché non aveva pagato i 2€ di contributo [4]). Per elidere l’effetto della violazione bastava togliere i soli voti illegittimi, sottraendoli ai tre candidati in proporzione ai voti ricevuti: questa soluzione sterilizza l’effetto della violazione, rispetta i diritti degli altri elettori, e distorce solo impercettibilmente il risultato del voto [5]. La scelta del collegio è distorsiva, invece, è ingiusta, e paradossalmente moltiplica l’effetto della violazione: per quanto non abbia alterato il risultato di queste elezioni, infatti, essa crea un precedente che rende le future primarie molto vulnerabili a anche trascurabili, innocenti o deliberati.
C’è poi un caso dubbio – 25 schede messe nell’urna prima dell’apertura del seggio: innocente disinvoltura o frode? (solo in caso di frode aveva senso annullare tutto, per le ragioni appena dette) – sul quale non vale la pena di fermarsi.
Nei restanti sette casi il rimedio pare proporzionato. In quattro seggi il collegio ha accertato il «condizionamento» organizzato del voto – verosimilmente comprato, in almeno due casi – di interi gruppi di elettori [6]. C’è poi un caso di voti dichiaratamente comprati: due voti soltanto, ma il collegio deve aver presunto che siccome nessuno compra solo un paio di voti dietro quei due casi c’era una frode più estesa, e per precauzione ha annullato l’intero seggio [7]. E due altri casi di probabile frode organizzata, col metodo della scheda non vidimata [8]: siccome la presenza nelle urne di schede non vidimate è spesso indice di compravendita organizzata del voto il collegio ha scelto di non limitarsi ad annullare quelle sole schede, come prescrivono le regole, ma di annullare tutto [9].
Quindi sette decisioni condivisibili, una dubbia, e cinque irragionevoli. Cinque errori su tredici non sono pochi. Sono errori secondari, certo, commessi nei casi meno preoccupanti. Ma fanno cadere la presunzione d’infallibilità del collegio, e dimostrano una netta deviazione dal criterio formalistico sempre usato dal collegio: in almeno due casi, infatti, i garanti-giudici hanno necessariamente dedotto dai fatti accertati – il ritrovamento delle schede non vidimate – conseguenze più vaste di quanto le prove non testimoniassero, o le regole non richiedessero, e lo hanno fatto sulla base del principio di precauzione e di una (ragionevole) regola di esperienza. La domanda, allora, è se qualcuno dei sedici ricorsi respinti non meritasse anch’esso un approccio simile.
In particolare, quattro ricorsi riguardavano gruppi di stranieri accompagnati a votare da un’interprete. Il collegio ha accolto un solo ricorso, perché il verbale dimostrava che l’accompagnatore aveva anche pagato i 2€ per i votanti, alcuni dei quali avevano poi fotografato il proprio voto nella cabina elettorale, mentre nulla di simile emergeva dagli altri tre verbali. Non è escluso, però, che la vera differenza tra questo caso e gli altri tre sia che i suoi protagonisti sono stati più maldestri. Questo non è certo, naturalmente. Ma non era neppure certo che i voti comprati fossero più di due, o che le schede non vidimate fossero state strumento di compravendita del voto.
Il caso più simile a quello degli stranieri è quello dei votanti «di centrodestra». Siccome queste persone avevano firmato una dichiarazione di adesione al programma del centrosinistra, è solo sulla base di una regola di esperienza – che le persone raramente mutano opinioni politiche nel giro di pochi mesi – che il collegio ha potuto dichiararli elettori illegittimi, oltre che bugiardi. Ma se questa regola d’esperienza è sufficiente per decidere della validità di un voto – ne dubito – allora si può costruire una regola simile, e non meno solida: è improbabile che stranieri che conoscono male l’italiano e vanno a votare in gruppo, accompagnati da un’interprete, votino per loro incondizionata scelta, soprattutto quando è provato che c’è in giro qualcuno che compra voti di stranieri. Non dico che il collegio avrebbe dovuto seguire questa regola: dico che sembra aver applicato agli italiani conservatori una regola più rigorosa che agli stranieri non italofoni. Questo atteggiamento equivale a una sorta di affirmative action, che ha senso per un organo politico ma lascia perplessi in un organo giudiziario. Anche perché il collegio non parla neppure del rischio di condizionamento del voto, che invece era l’oggetto del ricorso: la motivazione che ha scritto non è che una breve lezione su integrazione ed eguaglianza.
Questa la decisione del collegio, che ha stabilito quali ricorsi erano fondati e quali no. È sufficiente per concludere che le primarie si sono svolte in modo ragionevolmente accettabile? Ovviamente no, a causa sia del criterio (quasi) sempre formalistico seguito dal collegio, sia del suo approccio atomistico: quest’organo infatti si è limitato a emettere 29 separate decisioni su 29 separati ricorsi, senza mai legare casi simili tra loro, farne una valutazione d’insieme, o dare un giudizio complessivo sullo svolgimento delle primarie. Deliberatamente, il collegio ha guardato agli alberi* e non alla foresta. Quindi il suo giudizio è una base necessaria ma non sufficiente per decidere se ratificarne l’esito.
Le primarie sono elezioni che il Pd – il centrosinistra, in questo caso – organizza volontariamente e nel proprio interesse. Se il loro esito non è ragionevolmente credibile esse sono dannose, oltre che inutili, e il Pd ha il diritto di annullarle anche qualora il collegio non lo chieda. Ed è chiaro che a questo fine non conta tanto il numero dei seggi annullati – cinque di troppo, a mio avviso – quanto la natura delle irregolarità accertate e il quadro che esse disegnano insieme agli altri fatti noti, quali le apparenti anomalie nell’affluenza alle urne. Visti in questa prospettiva, i sette casi accertati di «condizionamento» organizzato del voto, gravi e piuttosto simili tra loro, sono anche sufficientemente simili a quelli denunciati da alcuni ricorsi rigettati per dar corpo all’ipotesi che l’inquinamento del voto sia stato più esteso di quanto i verbali o i ricorrenti abbiano potuto dimostrato: sensibilmente più esteso, quelle anomalie sembrerebbero suggerire.
Il collegio non ha valutato questa ipotesi, ma ciò solo non la esclude: erano gli organi politici del Pd che dovevano considerala, sia perché è sufficientemente realistica da non poter essere esclusa a priori, sia perché quello che è emerso a proposito del Pd romano rende consigliabile, in queste cose, errare più per eccesso che per difetto di prudenza. Quindi il Pd doveva fare almeno qualcuna delle indagini che il collegio non aveva potuto svolgere: un’analisi statistica del voto, ad esempio, e interviste al personale dei seggi, ai dirigenti locali, agli elettori stranieri†.
Il Pd ligure avrà fatto queste verifiche? Immagino di sì, poiché non farle sarebbe stato imprudente. Ma la proclamazione dei risultati è avvenuta già il 16 gennaio, ossia cinque giorni dopo il voto e tre giorni prima che il collegio scrivesse, approvasse e pubblicasse le motivazioni delle proprie decisioni: il Pd ha avuto poco tempo e non tutte le informazioni utili per fare le sue indagini. Soprattutto, non ha mai detto di averle fatte: per sostenere la propria decisione di confermare il voto, e rispondere alle critiche che sono seguite, ha citato solamente la decisione del collegio. Ma se, fatte quelle verifiche, il Pd era ragionevolmente certo che le elezioni non fossero state inquinate oltre i casi accertati, perché non rispondere alle critiche dicendo che la macchina delle primarie aveva funzionato a dovere? Avrebbe avuto ogni diritto di dirlo, poiché tutte le irregolarità denunciate erano state prima registrate a verbale‡ e poi sanzionate. In altre parole, o queste elezioni sono andate molto bene o sono andate piuttosto male, e ciò richiedeva una nettezza che nella comunicazione pubblica del Pd non ho notato. Allora forse le verifiche non sono state fatte.
Quest’incertezza, se permarrà, può lasciare delle ombre. Non necessariamente sull’esito del voto e non tanto per le irregolarità accertate, quanto perché ignorare un’ipotesi realistica di condizionamento diffuso del voto equivale a dimostrare tolleranza verso questo fenomeno: un grado di tolleranza pari al grado di realismo di quell’ipotesi.
* Acciughe, nei seggi di spiaggia. † Tramite interpreti altri da quelli che li avevano condotti al seggio. ‡ Con una sola eccezione: vedi la nota 1.
Note
[1] Una sola volta il collegio ha superato il verbale. Lo ha fatto perché l’irregolarità – grave, ripetuta, visibile – era confermata dalla dichiarazione di una scrutatrice: il collegio, quindi, ha creduto a lei e non ha chi a scritto il verbale (che aveva interesse a omettere quelle irregolarità perché che dimostravano quantomeno la negligenza del personale di seggio). Questa è la decisione (Imperia, seggio Santo Stefano al Mare): «Viene lamentata, attraverso una specifica dichiarazione di una scrutatrice, la presenza di un assessore comunale di Pompeiana che chiedeva ripetutamente, recandosi più volte presso il seggio, l’elenco dei votanti per verificare che tutte le persone da lui mandate a votare lo avessero fatto, aggiungendo che in caso contrario avrebbe dovuto “saldare i conti e non voleva essere preso in giro”. Per l’attività inquietante segnalata, il disturbo del voto e la grave dichiarazione espressa, il Collegio decide di annullare il voto del seggio.»
[2] Articolo 18, terzo paragrafo, del regolamento per le primarie liguri: «Il Collegio, accertata la violazione, rende note le misure adottate al fine di far cessare la violazione e ristabilire la parità di condizioni fra i candidati, prescrivendo gli atti riparatori a favore dei soggetti danneggiati e fissando il termine per l’adempimento.» Questa è sola regola che ho trovato, nel regolamento ligure o in quello nazionale: magari ne esistono altre, ma nelle sue decisioni il collegio cita sempre e solo questo medesimo regolamento.
[3] Qui il collegio ha sbagliato doppiamente, perché tutti questi elettori – tranne forse quella, donna stravagante, che «votando ha dichiarato di essere per il centrodestra» – erano legittimi (secondo le regole che ho letto: articolo 6 del regolamento). In questi casi, infatti, tutto ciò che il verbale e la memoria storica locale potevano dimostrare è che avevano votato dei conservatori. Ma per aver diritto a votare è sufficiente aderire, firmandole, alle ‘linee guida del centrosinistra per la Liguria’. Questo documento non si trova su internet, e il Pd ligure non ha risposto alla mia richiesta di mandarmelo: ma suppongo che non si discosti molto dal ‘manifesto’ per le elezioni regionali, che è un documento (disponibile qui) piuttosto lungo, ragionevole e spesso vago, con idee che un conservatore democratico e liberale può agevolmente condividere, e che difficilmente può servire da discrimine se non rispetto a posizioni politiche estremiste, populiste o stravaganti. Su che base, quindi, il collegio – che in tutti gli altri casi ha guardato solo alle prove scritte – ha fatto prevalere la propria percezione delle opinioni politiche di queste persone sulla loro dichiarazione scritta, e li ha dichiarati tutti mentitori? Evidentemente il collegio ha guardato alla sostanza, e devo presumere che abbia fatto bene. Ma se si guarda alla sostanza bisogna guardarla per intero. Prima del voto, infatti, un candidato (Paita) aveva dichiarato di vedere con favore una coalizione con forze moderate – quelle che hanno votato la fiducia al governo nazionale insieme al Pd – estranee alla coalizione che ha organizzato le primarie. Questo magari è un problema per il Pd, ma quella di Paita è stata una dichiarazione ammirevolmente trasparente, oltre che politicamente significativa. Quindi è piuttosto verosimile – e il collegio non poteva ragionevolmente escludere – che quegli elettori conservatori avessero votato per Paita perché genuinamente volevano la sua vittoria alle primarie, proprio in considerazione di quel progetto di coalizione; ed è altrettanto verosimile che essi prevedessero (e tuttora prevedano) di votare per lei anche alle elezioni regionali, visto che la concorrenza da destra rende improbabile la vittoria di un loro autonomo candidato e rende razionale per loro votare Paita. Il problema allora non nasce tanto dai limiti strutturali delle primarie aperte e volontarie, quanto dal divario tra la coalizione che le ha organizzate e la coalizione, più ampia, che uno dei candidati progetta di fare. O quella coalizione è ammissibile – quale soluzione desiderabile ex ante, non quale soluzione pragmatica ex post – per il Pd, e allora le primarie dovevano essere aperte anche agli elettori moderati; o non è ammissibile, e allora prima del voto quella candidata doveva essere contraddetta o privata dell’elettorato passivo. Siccome Paita non è stata contraddetta quei conservatori erano tutti elettori legittimi, così come erano legittimi tutti gli altri moderati che, senza essere individuati come tali, hanno senza dubbio votato negli altri seggi. Ne consegue che è sbagliato definire stravagante l’elettrice che «votando ha dichiarato di essere per il centrodestra»: è stata ammirevolmente trasparente a chiarire la propria posizione politica. Ne consegue, egualmente, che Cofferati avrebbe forse fatto meglio a dimettersi prima del voto, se le ragioni principali del suo (evidentemente insanabile) dissenso col Pd sono i voti moderati e il progetto di coalizione coi loro rappresentanti.
[4] Non c’è dubbio che questi fossero elettori illegittimi, perché per avere diritto a votare bisogna pagare i 2€ (articolo 6 del regolamento). Ma queste persone si sono rifiutate di pagare, se ne sono dimenticate, o è stato il personale di seggio a dimenticarsi di chiedergli di pagare? Ciascuna ipotesi conduce a esiti assurdi, se la sanzione è sempre l’annullamento.
[5] Esempio: il candidato A riceve 300 voti, il candidato B 200, il candidato C 100; ma 6 voti sono illegittimi; e le regole chiedono di «far cessare la violazione e ristabilire la parità di condizioni fra i candidati». Prima soluzione: ciascun candidato perde una frazione dei 6 voti che sia pari alla frazione di voti ottenuti; quindi, siccome A ha ottenuto ½ dei voti espressi perderà 3 voti (½x6=3); B ha ottenuto 1/3 dei voti e ne perderà 2 (1/3×6=2); C ne perderà 1 (1/6×6=1); così si eliminano solo 6 voti, e lo si fa rispettando i rapporti di forza tra i candidati. Seconda soluzione: ciascuno perde 6 voti, e quindi l’esito sarà A 294 voti, B 194, e C, 94. Oppure, soluzione mista: siccome C ha preso ½ dei voti di B e 1/3 dei voti di A, C perde 6 voti (6×1), B ne perde 12 (6×2), e A 18 (6×4). La prima soluzione è la meno dispendiosa in termini di voti, e non è irragionevole pensare che i voti illegittimi si siano distribuiti come gli altri; la seconda soluzione copre il rischio che così non sia avvenuto, ma è più dispendiosa e distorcente; la terza soluzione è ancora più dispendiosa. Ma nessuna delle tre è tanto distorcente e dispendiosa quanto annullare il voto. Ad esempio, usando la prima soluzione – si tolgono solo 6 voti, un po’ per ciascuno – resta possibile che qualcuno dei candidati benefici di voti illegittimi (qualora questi si siano distribuiti in modo diverso dalle proporzioni usate): il rischio che ciò sia determinante sull’esito del voto, tuttavia, sorge solo qualora il candidato C vinca le elezioni per un numero di voti pari o inferiore a 5 (6 meno 1 che gli è stato tolto), ovvero qualora B vinca per un numero di voti pari o inferiore a 4 (6-2), ovvero qualora A vinca per un numero di voti pari o inferiore a 3 (6-3); in tal caso, a rigore, bisognerebbe annullare le elezioni. Ma al di fuori di questi tre casi, poco probabili, non ci sarebbe problema. Annullando tutti i 600 voti del seggio, invece, il rischio di incidere sui risultati delle elezioni è molto più elevato: perché, ad esempio, se A perderà le elezioni per un numero di voti pari o inferiore a 294 (300-6), la causa prima della sconfitta sarà stata la presenza dei voti illegittimi, che ha prodotto l’annullamento del seggio. Paradossalmente, pertanto, annullando il seggio si moltiplica l’effetto inquinante dei voti illegittimi (e della «violazione»). Il che è assurdo, ed è l’opposto di ciò che la regola richiede.
[6] Questi i quattro casi: Tigullio, seggio Moconesi: «pressante controllo del voto»; Savona, seggio Villapiana: «suggerimento di voto espresso e ripetuto… insistente richiesta di consegna ai votanti delle ricevute di versamento»; La Spezia, seggio 8: «scatto di fotografie all’interno della cabina elettorale… l’accompagnamento di un interprete che spiegava a soggetti non italiani quello che dovevano fare e che provvedeva per loro a versare i due euro dovuti»; Imperia, seggio Santo Stefano al Mare: «assessore che chiedeva ripetutamente, recandosi più volte presso il seggio, l’elenco dei votanti per verificare che tutte le persone da lui mandate a votare lo avessero fatto, aggiungendo che in caso contrario avrebbe dovuto “saldare i conti e non voleva essere preso in giro”».
[7] Tigullio, seggio Lavagna: «gravi segnalazioni di due elettrici, e in particolare di una, che parla di Euro versati a lei, prima dell’ingresso al seggio, ai fini del voto».
[8] Le schede devono tutte essere vidimate – nel seggio, pubblicamente e subito prima del voto – non solo per evitare che nell’urna entrino schede diverse, o ulteriori, rispetto a quelle consegnate agli elettori, ma anche per impedire un metodo sicuro e relativamente semplice di compravendita del voto. Il metodo è questo. Chi vuole desidera voti si procura una scheda non vidimata, comprandola o rubandola dallo stampatore o dagli uffici elettorali. Il giorno delle elezioni la consegna al primo elettore comprato, il quale se la mette in tasca e va al seggio. Al seggio l’elettore riceve una scheda vidimata; nella cabina elettorale la sostituisce con quella, non vidimata, che ha in tasca; mette nell’urna la scheda non vidimata (votandola come desidera: il voto è comunque nullo); esce con quella vidimata in tasca; torna dal compratore, gli consegna la scheda vidimata (bianca), e riceve i soldi promessi. Il compratore segna il voto desiderato sulla scheda vidimata che ha appena ricevuto dal primo elettore, e la consegna al secondo elettore venduto. Questi va al seggio, mette questa scheda nell’urna, esce con la scheda vidimata (bianca) in tasca, la consegna e riceve i soldi. Il compratore segna il voto sulla scheda, la consegna al terzo elettore, e così via. A seconda dell’efficienza dell’organizzazione e dell’intensità dell’affluenza al seggio con una scheda non vidimata si possono comprare sino a una dozzina di voti per ogni ora di apertura del seggio. Ma resta la traccia, ossia una scheda non vidimata per ogni catena di voti comprati: 12 potenziali catene non sono poche, e 72 sono molte (troppe, forse). Questo metodo è usato nei paesi a democrazia debole (si usa in Kosovo), ma apparentemente anche in Italia: ad esempio questo articolo, questa sentenza e questo altro articolo testimoniano di casi sospetti in Calabria, nel 2011 e nel 2012.
[9] Il regolamento (quarto paragrafo dell’articolo 14) dice che «Il voto è nullo quando… sia espresso su una scheda non vidimata»: è nullo il voto, quindi, non il seggio. I due casi sono: Imperia, seggio Perinaldo (12 schede); e La Spezia, seggio Sarzana (72).
Fine (infine!)
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