Partiti e politici

Le presidenziali francesi e la crisi politica in Europa

24 Aprile 2017

Il primo turno delle elezioni Presidenziali in Francia è stato atteso in tutta Europa come un passaggio fondamentale non solo per la vita politica francese ma per il futuro di tutto il continente. La prospettiva di Marine Le Pen vincitrice al ballottaggio è a tutt’ora un’eventualità che spaventa le cancellerie europee e che, sebbene i dati lo prospettino come uno scenario difficile da realizzarsi, sta spingendo alla formazione di una coalizione repubblicana che dovrebbe, salvo sorprese, condurre Macron all’Eliseo.

Il giovane Macron è indubbiamente il grande vincitore di questa sfida ma cucirgli addosso i tratti del Katechon che dovrebbe contenere il caos rappresentato dalla barbara Le Pen, rischia di non essere d’aiuto a Macron stesso e di confondere i termini per svolgere una valida riflessione su ciò che sta accadendo in Francia e in Europa. I quasi 16 milioni e mezzo di francesi che hanno votato per Le Pen, Melanchon e Lassalle (ben il 45,7% dei voti espressi al primo turno) possono essere etichettati banalmente come una massa di anti-sistema contro i quali va opposto il razionalismo di una “coalizione” a difesa dell’esistente? Oppure sono voti che hanno espresso un malessere diffuso in Francia, e comune a grossa parte dell’Europa? Il fatto che siano voti che si sono divisi tra la destra nazionalista e protezionista e la sinistra sovranista e radicale, non ci dicono che forse c’è ancora una distinzione valida tra destra e sinistra? Abbiamo una serie di dati emersi dal primo turno e che vanno messi in fila per analizzare questo voto nel suo complesso.

Il primo elemento è l’estrema frammentazione del consenso: ci troviamo dinanzi ad una competizione che ha visto ben quattro candidati di estrazione politica diversa e con obiettivi politici differenti, raccolti in uno scarto di appena un milione e quattrocentomila voti. Questo è un segnale in linea con quel che sta accadendo in parte dell’Europa e, soprattutto, in Italia dove l’indebolimento dei partiti tradizionali e l’insoddisfazione per politiche difficilmente distinguibili tra chi (teoricamente) dovrebbe avere piattaforme differenti, sono condizioni che hanno favorito l’emersione di nuovi imprenditori politici. Se questa dinamica è facilmente comprensibile in sistema con istituzioni deboli come quello italiano, desta qualche preoccupazione in più il fatto che avvenga anche in un paese con istituzioni forti come la Francia, dove la Presidenza ha un ruolo di perno in un sistema istituzionale ben funzionante.

Quello che può spiegare tale similitudine è probabilmente il collasso del sistema dei partiti: la bassa istituzionalizzazione partitica può accomunare sia questa fase della Quinta Repubblica francese sia la Seconda Repubblica italiana (benché nel nostro caso la situazione sia patologica). Questa condizione potrebbe aprire scenari interessanti in vista delle legislative francesi di giugno: la frammentazione e la potenziale incapacità dei due contendenti al ballottaggio di guadagnare seggi sufficienti per formare una maggioranza autonoma (assenza di un partito e di radicamento territoriale per Macron e pregiudiziale anti-sistemica verso la Le Pen), potrebbero consegnare al paese un Presidente indebolito. Una eventuale coabitazione, con un primo ministro espressione di una maggioranza parlamentare diversa rispetto al Presidente, depotenzierebbe il ruolo di “riformatore del sistema” che Macron si è voluto cucire addosso, costringendolo a scendere a patti con pezzi dell’establishment politico tradizionale (in particolare con la destra dei Repubblicani). Inoltre, renderebbe il Presidente maggiormente dipendente da un Primo Ministro in grado di costruire una maggioranza parlamentare più o meno funzionante.

Il secondo elemento è il fatto che per la prima volta nella storia della Quinta Repubblica, entrambi i due grandi partiti sono esclusi dal ballottaggio. Come se ciò non bastasse, sommando i voti di Fillon e Hamon, si supera di poco il quarto dei voti totali espressi. Macron, Le Pen e Melanchon sono i competitor che si sono avvantaggiati in modo evidente da questa poderosa volatilità elettorale rispetto al bacino di voto dei due partiti mainstream. Su questo aspetto sarebbe possibile spendere fiumi di inchiostro ma per ora possiamo impostare solo alcune piccole precisazioni. La Le Pen guadagna un milione di voti rispetto a cinque anni fa, ma sembra essersi rafforzata nelle aree rurali e periferiche del paese e ha consolidato il suo consenso tra i giovani e le classi operaie, un bacino elettorale su cui ha fatto in parte presa anche Melanchon. Questi due candidati hanno quindi attaccato a tenaglia quella che era una base elettorale del PS, tanto che i socialisti non sono stati in grado di registrare la vittoria in nessuno dei dipartimenti francesi. A ciò bisogna aggiungere che, con molta probabilità, Macron è stato capace di soffiare l’elettorato più moderato del PS, spaventatosi dalla fase di crollo politico in cui versava il partito. Questo, nonostante gli sforzi profusi da Hamon in campagna elettorale, è il risultato di un quinquennio disastroso della coppia Hollande/Valls, ossia la migliore incarnazione di un socialismo di governo privo di idee e di capacità di lettura della realtà.

Il terzo elemento è appunto la crisi della socialdemocrazia e del socialismo, in Francia come in Europa. Le elezioni in Olanda, Austria e Francia certificano l’evidente incapacità dei socialisti nel rispondere alle sfide proposte dal nostro tempo. Queste sono elezioni in cui i socialisti sono stati puniti dopo l’esperienza di governo, siano essi maggioranza o parte di una grande coalizione. Le elezioni francesi tolgono un ulteriore “alibi” alle socialdemocrazie, le quali perdono non solo quando sono al governo con i partiti conservatori ma anche quando sono una maggioranza monocolore. Questo conferma che il problema per i socialdemocratici europei non è tanto la formula di governo, quanto la proposta politica e l’orizzonte valoriale che rappresentano: la sinistra di governo ha smesso di essere sinistra su troppi temi, sposando le ricette della destra o accordandosi con essa per raggiungere il governo. Questo processo di cartellizzazione dei partiti non solo ha annientato le ragioni della socialdemocrazia negli ultimi venti anni, ma ha anche contribuito alla crisi nel funzionamento delle nostre democrazie. Il conflitto politico e l’alternanza sono due perni su cui si basano le nostre democrazie, nel momento in cui questi elementi cedono è inevitabile e fisiologico che si creino degli spazi occupati da nuovi attori, in grado di rappresentare domande politiche che non hanno più risposta da parte di un sistema dei partiti ormai sclerotizzato. Il problema non è, come dice Letta in un’intervista odierna al Corriere, che “I grandi partiti tradizionali sono finiti, perché l’elettorato è di una mobilità impressionante”; i partiti tradizionali sono in crisi perché non hanno più una cultura politica su cui costruire una visione del mondo e della società, una cultura politica su cui edificare proposte politiche alternative. Questi partiti hanno prodotto un vuoto che non sono più in grado di governare e che viene riempito dai movimenti populisti o dai movimenti personali come quello di Macron. I partiti socialisti in Europa sono in crisi perché parlano un linguaggio incomprensibile, sono distanti dalla realtà sociale e non sono in grado di interagire con masse deboli e frammentate.

Veniamo così al quarto elemento, ossia il consolidamento del Front National. La Le Pen si rafforza molto più di quanto sia dato pensare dal suo risultato complessivo. Vince per la prima volta alcuni dipartimenti, cresce in voti assoluti in ogni dipartimento e in quasi tutti supera il 15% dei suffragi espressi. Questo è il segno evidente di un consolidamento nello scenario politico francese di una leader che è stata capace di modernizzare (almeno in parte) l’immagine del suo partito e definire una leadership capace di attrarre parte del ventre molle della Francia profonda. Questo, banalmente, è il segreto di quei partiti che ormai vengono etichettati come populisti; etichetta che dice tutto e nulla. Il populismo è uno stile del linguaggio, uno strumento che veicola contenuti ben più radicali e simbolicamente rilevanti: i movimenti come il Front National, rappresentano una nuova forma di nazionalismo non paragonabile a quello che ha travolto l’Europa tra gli anni ’20 e ’30 del secolo scorso. Questo è un nazionalismo che vuole “più democrazia” invocando un nuovo coinvolgimento popolare, vuole più sicurezza sociale per gli sconfitti della globalizzazione, vuole smantellare l’Unione Europea perché considerata la massima espressione di un modello in cui le élites hanno un dominio incontrastato sulla vita politica e le ragioni dell’economia surclassano quelle della società. Vogliono sì una società identitaria e chiusa, ma non tanto su base etnica come negli anni ’30 quanto sul rispetto del concetto di cittadinanza: prima gli italiani o prima i francesi, significa garantire che sia nuovamente la condizione di cittadini a dare accesso ai servizi, al welfare, al lavoro ecc. Con queste parole d’ordine non c’è da stupirsi che il loro sia un messaggio suadente per le periferie delle nostre nazioni e per i ceti medi sempre più in difficoltà. Quel che deve preoccupare non è tanto il loro successo, quanto l’incapacità degli attori nel contrastarli sul piano della politica e non su quello della demonizzazione.

Torniamo quindi all’incipit di questo pezzo. Macron potrà vincere non solo elettoralmente, e forse cambiare la Francia, se sarà in grado di dare risposte soprattutto alle domande che politici come la Le Pen stanno ormai monopolizzando da anni. Il dato più apprezzabile della sua campagna elettorale è stato quello di rivendicare l’integrazione europea come un’esperienza di successo e l’orizzonte all’interno del quale la Francia potrà rinnovarsi. Una nuova Europa, da riformare, ma non un’Europa da biasimare e contrastare. Su questo punto, ad esempio, si staglia in modo plastico la differenza con Renzi che negli ultimi mesi ha fatto dell’Europa il suo bersaglio preferito. Il nodo non è essere europeisti a dispetto dei problemi, ma è essere in grado di sfidare “i populisti” senza inseguire la loro propaganda (come ad esempio condurre una campagna per il Sì al referendum costituzionale, basandola sul taglio delle “poltrone” e sul mandare a casa qualche politico di troppo).

Resta al momento inevaso il tema più importante, ossia chi è (o cos’è) politicamente Macron. Ascoltando il suo discorso pubblico e il suo messaggio, è intuibile la sua voglia di smarcarsi da ogni forma di etichettatura di tipo novecentesco. È un politico che ambisce ad infilarsi nelle pieghe e nella crisi delle fratture politiche del ‘900. Questo non perché la frattura destra/sinistra non esista più, quanto perché accanto ad essa ne sono emerse di nuove – ad esempio pro/anti integrazione europea – o ne sono riemerse di antiche – centro/periferia e città/campagna (come testimonia il successo del Front National nelle zone periferiche del paese, o il successo dei Leave nelle campagne e nelle periferie inglesi in occasione della Brexit).

Questa condizione ha reso il quadro più sfocato e fluido ma non al punto tale da rimuovere le ragioni di una differenza strutturale: le questioni dell’eguaglianza sociale, dell’integrazione degli esclusi, della pari dignità politica e sociale degli individui e del lavoro, sono tutti temi dirimenti sempre più presenti sul tavolo. E lo sono in modo quanto mai vivo in questo periodo storico. Il successo di Macron non rappresenta la vittoria di una nuova sinistra – perché Macron ha, onestamente, ben poco del leader di sinistra -, ma incarna la sconfitta della vecchia sinistra governista che ha ridotto la lotta per la conquista del potere a fine ultimo e non a mezzo per trasformare la società. Ecco perché il ballottaggio Macron – Le Pen rappresenta l’ennesima batosta per la socialdemocrazia: mette a confronto un modello centrista e di destra democratico/liberale e un modello di destra nazionalista e protezionista.

Benché dinanzi alla scelta tra Macron e Le Pen non esistano dubbi (almeno personali) sulla scelta a favore del giovane ex ministro, appare una lettura fuorviante quella che vede in Macron l’incarnazione di un modello futuribile per la sinistra, a meno di non voler edulcorare del tutto ciò che comporta guardare al mondo con gli occhi della sinistra. La riedizione del blarismo con vent’anni di ritardo appare una prospettiva fuori dal tempo, perché sono mutati gli elementi contestuali che all’epoca avevano illuso la sinistra di poter domare le forze della globalizzazione, favorendo il libero mercato e riducendo il peso dello stato sia nel mercato stesso che nel campo della protezione sociale. L’idea che la crescita economica potesse, da sola, migliorare la vita degli individui si è rivelata errata proprio nelle società avanzate dell’Europa occidentale. Questo sarebbe il tempo giusto per una sinistra di governo di reimpostare i propri paradigmi: la crescita economica senza le reti di protezione è una giungla in cui il più debole è destinato ad essere smembrato.

In conclusione Macron è più che altro il rappresentante di una elegante e rispettabile destra borghese, cosmopolita ed europeista (quindi ovviamente preferibile alla destra ultra nazionalista) che è stata abile ad alzare il vessillo del successo sulle macerie di una sinistra riformista annichilita, fuori tempo e incapace di leggere la realtà.

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