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Le infallibili previsioni del giorno seguente
Con qualche giorno di ritardo, ho letto il lungo articolo uscito su Repubblica, a firma Ezio Mauro. Se ne è parlato molto, lo ricorderete: partendo da Torino, percorsa da un lato all’altro in tram, e muovendosi fra città e province d’Italia, ha raccontato i centri, le periferie, la vita e i pensieri dei ceti popolari, colpiti dalla crisi e sempre più distanti dalla sinistra, moderata o radicale che sia. Centri e periferie simbolo dell’Italia tutta, e forse del mondo, come dimostrato qualche giorno prima dall’elezione di Trump.
Un articolo bello, pertinente, ovviamente ben scritto. E un potentissimo generatore di incazzatura.
Io non so se voi avete mai fatto parte di un partito della sinistra italiana, intendo il PCI o una delle sue tante derivazioni successive, in salsa governativa o antagonista; ecco, se vi fosse capitato, come a me, conoscereste alla perfezione uno dei riti più diffusi in quegli ambienti, e più perversamente amati: l’analisi del voto, all’indomani di una sconfitta.
Lo diceva anche il grandissimo Julio Velasco: chi vince festeggia, chi perde spiega; ecco, da quelle parti è capitato spessissimo di dover spiegare. E, sembra incredibile, che si trattasse della Direzione Nazionale o del più isolato circolo della provincia, si era sempre pronti a dettagliare l’uno all’altro le ragioni del fallimento. Con il conforto di dati, analisi, riferimenti colti, si concludeva inevitabilmente che la sconfitta era ovvia, e le sue ragioni evidentissime davanti ai nostri occhi. Da tempo, per giunta.
Fino a qualche giorno prima, nessuno aveva fatto cenno a quell’insieme di solari evidenze. Eravamo tutti, ognuno a suo modo, laureati a pieni voti in senno di poi.
Non so se Ezio Mauro abbia mai fatto parte di simili comunità; ma direi che ne è membro ad honorem, senza dubbio. Ed è in ampia e straordinaria compagnia: penso che facendo una veloce ricerca nella mia libreria, nemmeno particolarmente fornita, potrei trovare diversi articoli risalenti – almeno – all’inizio del 2000, in cui si spiega l’allontanarsi dei ceti popolari dal voto alla sinistra, e il loro approdo verso l’allora splendente Berlusconi. E qualche anno prima era stato tutto un dibattere sul voto operaio che andava alla Lega, con tanto di battibecchi su chi fosse costola di cosa.
Tutte le volte, quei ragionamenti così sensati sono stati dimenticati qualche giorno dopo, per tornare ognuno alla sua routine: i più accomodanti a sottolineare quanto fosse inevitabile accodarsi alle scelte più impopolari, i più arrabbiati a contestarle con linguaggi e concetti ricopiati da almanacchi ingialliti. Solo la psicoanalisi, forse, potrebbe spiegare la costanza della ripetizione. Anzi, dev’essere già successo: avranno senz’altro telefonato a Recalcati.
Per consolarci, possiamo dire che non è un fenomeno esclusivamente italiano. La lettura di questo lunghissimo – e molto bello; sono tutti molto belli – articolo del New Yorker “sull’America profonda” valga da esempio.
La diagnosi, insomma, è sempre adeguata, per quanto tardiva. Se si va in cerca di una terapia, invece, si trova poco; quel poco, spesso in aperta contraddizione con quanto scritto nella cartella clinica. Molti dei pareri raccolti da Ezio Mauro nel suo viaggio (Sergio Chiamparino, Michele Salvati, Giuliano Pisapia, fra gli altri) sembrano confermare che, in fondo, l’unica cosa da fare è continuare così, come fatto fino ad ora. Non ci siamo spiegati bene ? Spiegheremo meglio. Non ci hanno capito ? Capiranno.
Un altro esempio ? L’intervista a Massimo Cacciari, sempre su Repubblica, un paio di giorni fa; lui spiega che la sinistra deve tornare a fare la sinistra, deve rappresentare i ceti in sofferenza. Deve proteggerli, capirli, coinvolgerli. Lo deve fare parlando una lingua che si rivolga al “popolo” di oggi, non a quello di cinquant’anni fa. Bene, d’accordo. A precisa domanda, riguardo all’annunciata candidatura diAngela Merkel per il suo quarto mandato, risponde che si sentirebbe più rassicurato da lei che dai “populisti”. E lo dice perchè, in politica, bisogna essere “razionali”.
Intendiamoci, penso che qualunque persona di buon senso, dovendo scegliere fra la Merkel e un qualsiasi populista di destra tedesco, o europeo, avrebbe pochi dubbi. Anche fra Hillary Clinton e Trump. O fra Le Pen (padre) e Chirac, tanti anni fa. E fra Le Pen (figlia) e chiunque altro, tra pochi mesi. Ma se l’unica alternativa al “populismo” che riusciamo a vedere sta nelle persone – e nelle politiche – che da anni contribuiscono ad alimentarlo, diventa davvero difficile pensare di uscire da questo loop malefico. Viene da chiedersi se questa sia, davvero, razionalità. Anche perché questi suggerimenti alla scelta del “male minore” finiscono per essere ascoltati da pochi, il “popolo” li ignora, e siamo daccapo.
A meno che non si pensi di uscirne con un approccio mimetico, travestendosi da populisti e mutuandone non solo i linguaggi, ma anche i temi e gli umori. La terribile campagna per il referendum a cui stiamo assistendo ce lo dimostra ogni giorno, e non c’è bisogno di richiamare i tanti tristi episodi che lo confermano.
Ma anche uscendo dalla contingenza referendaria, ci sono riflessioni più o meno condivisibili che fanno del “populismo” un punto di partenza inevitabile, e ne immaginano una declinazione democratica, o addiritura anticapitalistica. Forse sì, forse no, io certamente non saprei dire.
Ma sarebbe ora che smettessimo tutti di coltivare il piacere masochista di ricordarci reciprocamente quanto era ovvio che stessimo sbagliando.
Potremmo porci un obiettivo limitato: non più laureati in senno di poi, ma umili scolari del “senno di prima”, come ricordava il mai dimenticato professor Franco Scoglio. Che forse non era al livello di Julio Velasco, ma rimane un pensatore non trascurabile, in questi tempi grami.
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