Partiti e politici

L’azzardo sommerso dai NO: il disastro politico di Napolitano e Renzi

5 Dicembre 2016

Adesso che il termometro oscilla attorno al meno 20, che possiamo dire con certezza che il No ha vinto largamente il referendum, che il dibattito sul prossimo futuro istituzionale del paese è già iniziato e nelle redazioni si comincia a preparare un “addetto allo spread” che tenga monitorata la situazione dei mercati rispetto all’incertezza italica, è obbligatorio ripartire da una domanda fondamentale: ma era davvero necessario, tutto questo? Ma davvero era indispensabile impiccare il paese, e consegnare il futuro politico dell’unica prospettiva riformista davvero in campo, e dell’unica personalità di leader al momento disponibile, a una sfida dai rischi enormi, e dai benefici sicuramente inferiori? E davvero era parsa un’idea realistica, a chi esce sonoramente sconfitto, di poter giocare una partita impari partendo dalla avventata promessa che, in caso di sconfitta, avrebbe non solo lasciato Palazzo Chigi ma addirittura la politica?

Nella notte più buia, nella prima vera, sonora sconfitta di una carriera che semmai aveva conosciuto battute d’arresto che erano diventati altrettanto trampolini di lancio, queste domande, forse, rimbombano nelle stanze di Palazzo Chigi e di lì, poco lontano, dovrebbero arrivare anche al Rione Monti, nella storica casa di residenza di Giorgio Napolitano. Sarebbe facile essere impietosi solo con lo spaccone fiorentino, il nostro coetaneo che ci ha fatto sperare, poi temere, poi ricredere, poi spaventare: l’uomo nuovo che si è lanciato sfidando la vecchia politica e la vecchia sinistra e poi, arrivando al potere con una congiura di palazzo da lui guidata, ha giocato tutte le carte del vecchio armamentario politicista, arrivando all’apice con questa ultima campagna elettorale fatta di regali e promesse, soprattutto ai pensionati e agli statali che non sono esattamente il futuro del paese che aveva promesso di rappresentare.

Ma prendersela solo con lui, appunto, sarebbe facile, e finirebbe con il trascurare e il nascondere che questa vicenda politica, chi ha messo sulla graticola e ha rischiato di bruciare definitivamente il più grande talento politico prodotto dal centrosinistra da molti anni. O meglio: chi ha costruito un percorso politico e offerto un palcoscenico così alto a un processo che davvero era ancora troppo acerbo. Parliamo di Giorgio Napolitano che ha generosamente – questo sì – e irritualmente accettato un secondo mandato, ma lo ha vincolato da subito a riforme istituzionali la cui urgenza era sicuramente cristallina nella sua mente di uomo del Novecento, mentre il paese sembrava reclamare altre urgenze e scelte politiche più concrete, dopo un quinquennio pieno di crisi e un modello di sviluppo che non stava più in piedi. E ancora, invece di spronare a un cambio di passo l’incedere un po’ lento di Enrico Letta e del suo governo, Napolitano ha avvallato la scalata brutale di Matteo Renzi che in poche settimane è passato da candidato segretario a premier tirandosi dietro un partito che, in buona parte, alle primarie di poco più di anno prima aveva votato il Novecento bonario e fuori tempo di Pierluigi Bersani. A questo quarantenne rampante e dai modi energici, evidentemente, non ha raccomandato abbastanza prudenza. O forse, non ha valutato con abbastanza attenzione il quadro complessivo, di cui le persone, in politica, sono una parte decisiva.

Perché leggere poche settimane fa di un Napolitano che si dichiarava dispiaciuto per il carattere di troppo spiccata personalizzazione del voto referendario, ecco, lascia almeno perplessi, visto che il processo era iniziato da lontano, e fatichiamo a pensare che una certa tendenza non dovesse essere vista e controllata prima, in privato, dal vero padre politico dell’operazione, piuttosto che criticata dopo, a frittata fatta, e in pubblico. Tanto più che l’approdo – una riforma che chi qui scrive ha sempre giudicato poco chiara – è diventato esiziale per il futuro del paese e per la sua stabilità a forza di ripeterlo, a forza di minacciare instabilità politiche dietro l’angolo, a forza di indicare nel cerbero europeo il vero nemico da cui difendersi con un sì. Come se, appunto, per risolvere i guai di un paese incancrenito un sì potesse bastare davvero, mentre invece i problemi complessi di questa nostra strana storia nazionale richiedono pazienza, ricucitura, nuovi rapporti tra la politica, le istituzioni e la società. Insomma, lungo lavoro e vera politica.

E adesso? E adesso il problema, intonso, ce l’abbiamo davanti. Il 40% di consensi che Matteo Renzi ha raccolto (inutile perdere tempo a cercare figurine da affiancargli, in questa battaglia da pazzi che ha voluto giocarsi a ogni costo) vale 13 milioni di voti. Non tanti di più, dopotutto, di quegli 11 milioni e qualcosa che aveva raccolto al suo apice a quelle europee del 2014 che aveva vissuto come una consacrazione e come un inizio: e appunto, invece, di lì in poi è stato tutto un calando. 13 milioni che non sono tutti “suoi”, in ogni caso, al di là di quanto dicono propagande e tifoserie. È vero, davanti c’è un’accozzaglia informe di tanti che si litigano i brandelli di una vittoria che non c’è perché, appunto, non sono stati loro a vincere, ma lui a perdere.

Non crediamo, sinceramente, che la parabola politica di Matteo Renzi sia finita qui. Per come lo abbiamo conosciuto è uomo che coltiva il genio della rivincita, della strategia e anche della vendetta. Ma certo, la botta è di quelle che lasciano un segno, consigliano un po’ di silenzio, una non inutile – per quanto tardiva – analisi autocritica di un percorso che non ha solo segnato una pesante battuta d’arresto nella sua ascesa e carriera ma anche – ed è molto peggio – aperto necessariamente una nuova fase di incertezza politica nel paese. Il Partito Democratico resta maggioranza assoluta alla Camera, e la coalizione che l’ha sostenuto finora al Senato, fino a prova contraria, esiste ancora.

Agli atti resta che tutti i processi hanno bisogno di radici solide, in questi tempi strani più che mai. Altrimenti si usurano in fretta, che in questi anni il potere logora chi ce l’ha. E ancora, resta che per un vero leader è fondamentale circondarsi di intelligenze critiche anche arcigne, anche sgradevoli, piuttosto che di adoranti collaboratori che finiscono con il credere alle favole che il capo racconta. Resta indispensabile parlare col paese vero, invece che farsi vezzeggiare da tanti supporter carini che fanno campagna elettorale ma del paese reale continuano, da tradizione, a non capire una mazza. Ancora, e più a fondo, resta che il bisogno di politica di questo paese – che sulla Costituzione ha voluto votare al 70% – rimane un unicum nel mondo occidentale. Occorre attrezzarsi, ricominciare a percorrere le strade e bussare alle porte, conoscere le scuole e chi va nelle fabbriche e negli uffici. È indispensabile ricordarsi che Roma è la capitale, ma la sua anima vera, quella che serve che i politici conoscano davvero, sta nelle borgate, non nelle case frequentate da politici e giornalisti. E che c’è un dramma della mancata crescita che sta erodendo risparmi e certezze, e sta togliendo fiducia nel futuro a tante generazioni. Ripetere a nastro dati appena meno che disastrosi su una ripresa che non c’è serve a riempire i giornali, ma non a vincere le elezioni. E neanche a cambiare in meglio il paese, che poi è lo scopo della politica: intesa, ovviamente, nel senso buono.

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.