Partiti e politici
L’assedio (rimandato) di Vienna
Un giornale satirico austriaco ha trovato forse il modo più simpatico di annunciare la vittoria alle elezioni presidenziali in Austria dell’indipendente Alexander Van der Bellen: una nuvola di fumo che, come per le elezioni dei pontefici, esce dal comignolo del palazzo imperiale della Hofburg. È infatti il fumo delle sigarette di Van der Bellen, ruvido professore di Economia che ha presieduto negli anni Novanta il partito dei Verdi, ad essere uno degli elementi distintivi di quest’uomo schivo e burbero, a cui è stato affidato l’arduo compito di fare da barriera alla marea montante del populismo. In tempi di Brexit e di Donald Trump, una missione quasi impossibile. A contrapporsi al verde Van der Bellen l’ingegnere Norbert Hofer, terzo vicepresidente del Parlamento austriaco e candidato designato del partito di estrema destra, la FPÖ. Uno scontro inedito per la Repubblica alpina, seguito all’inaspettata esclusione al primo turno dei candidati dei due partiti di governo, i socialdemocratici e i popolari, e alla decisione di ripetere nuovamente il ballottaggio tenutosi a maggio per vizi di forma e irregolarità. Un ballottaggio che aveva visto il professor Van der Bellen prevalere di poche migliaia di voti sullo sfidante del Partito della Libertà e che ha obbligato l’Austria ad una estenuante campagna elettorale prolungata all’estremo, con gli occhi del mondo (e soprattutto dell’Unione Europea) puntati su Vienna. I fantasmi di un ennesimo trionfo del populismo e di una “Oexit” (più minacciata che davvero preso in considerazione) hanno agitato le cancellerie e le istituzioni di Bruxelles, in un pericoloso combinato disposto con il voto italiano sulle riforme costituzionali volute dal premier Matteo Renzi.
La vittoria di Van der Bellen (53,3 a 46,7, a spoglio non ancora concluso) ha suscitato dunque un’ondata di sollievo tra quanti temevano che per la prima volta dalla Seconda Guerra Mondiale un leader dell’estrema destra nazionalista ed euroscettica avesse il consenso necessario per diventare il Presidente di uno Stato membro dell’Unione Europea. Un’eventualità tutt’altro che remota se analizzata da Parigi (in Francia il padre dell’attuale leader del partito di estrema destra Marine, Jean-Marie Le Pen, arrivò nel 2000 al ballottaggio contro il gollista Jacques Chirac) e densa di presagi negativi nella vicina Germania, dove una Angela Merkel che si appresta alla quarta campagna elettorale deve gestire la spina nel fianco di un movimento euroscettico in crescita da destra, AfD. La notevole capacità di Van der Bellen di allargare il distacco rispetto al competitor è stata dimostrata dai numeri: 30.000 voti di differenza la volta scorsa, 300.000 oggi, riuscendo a smuovere dall’area grigia del non voto oltre 169.000 elettori. Una forza attrattiva dovuta all’indubbia statura morale della sua figura, ma anche all’impegno dei quadri del partito socialdemocratico e dei sindaci dei cristiano-democratici nell’Austria rurale, pronti a lasciarsi alle spalle le appartenenze di partito per tirare la volata al candidato indipendente. Ferma restando l’umiliazione dovuta alla neutralizzazione dei propri candidati al primo turno, i due partiti storici che compongono la Grande Coalizione dell’attuale Cancelliere Christian Kern non potevano permettere che Hofer scippasse alla galassia filo-UE la carica più alta dello Stato. Nei primi anni Duemila l’ingresso al governo della FPÖ dell’allora governatore della Carinzia Jorg Haider portò ad una pioggia di reprimende da Bruxelles e alla diffusione, nella comunità internazionale, di un’idea dell’Austria come terreno di coltura di una nuova, inarrestabile, destra. Le cose non sembrano essere cambiate.
Se andiamo ad analizzare le caratteristiche demografiche delle fasce di elettori, emerge chiaramente come Van der Bellen prevalga tra gli under 30 (58%), con un picco del 68% tra le giovani donne. I giovani uomini si schierano invece con Hofer (53%) e la percentuale sale ulteriormente nella fascia tra 30 e i 59 anni. Potremmo snocciolare molti altri dati, ma conta a questo punto fermarsi sulle prima istantanee dell’Austria del 2016 restituite da questo controverso appuntamento elettorale: un Paese spaccato in due, in cui quel 46% riconosciuto al candidato di un partito mai giunto al secondo turno delle presidenziali è un campanello d’allarme per tutti. Come ha affermato uno dei migliori osservatori del contesto politico austriaco, Anton Pelinka (ripreso da Vittorio da Rold su Il Sole 24 Ore), i cinquanta chilometri tra la cosmopolita e modernissima Vienna e Eisenstadt (la capitale del Land orientale del Burgenland, tra le regioni più povere a livello europeo) sono un abisso che dovrà in qualche modo essere colmato. Mentre la cartina elettorale di Vienna è totalmente colorata di verde (circa 63% a 36%, con una prevalenza di Van der Bellen anche nei quartieri operai che votano FPÖ), il Burgenland si è confermato una roccaforte del candidato del Partito della Libertà. È da lì che “der Norbert” ha costruito la piattaforma dei “dimenticati” di trumpiana memoria e da cui la sua sfida all’establishment è destinata a continuare. “Si terranno altre elezioni e io ci sarò”, ha promesso Hofer, dichiarando su Facebook la propria “infinita tristezza”. I portoni della Hofburg, il vecchio palazzo del Kaiser che oggi ospita i detentori di un potere perlopiù cerimoniale, restano per ora sbarrati all’alfiere della destra, che nelle ultime settimane aveva tentato di adottare un profilo più moderato arrivando ad escludere la decisione, da Presidente, di mettere in dubbio l’appartenenza del Paese all’Unione Europea. Con Van der Bellen capo della Stato si allontana anche l’ipotesi di uno scioglimento anticipato delle Camere (che rientra nelle prerogative presidenziali) e diventa più probabile la continuazione di quel ruolo indispensabile di mediatore tra i partiti che ha ricoperto, con pazienza e tenacia, l’uscente di sinistra Heinz Fischer.
La forza del Partito della Libertà resta però intatta. Mentre Hofer ammette a denti stretti la sconfitta e si fa da parte, il vero leader della FPÖ, il combattivo Heinz Christian Strache, scalda i motori per le prossime elezioni politiche. La scadenza naturale della legislatura è il 2018, ma il tasso di litigiosità della coalizione di governo sta raggiungendo livelli intollerabili. Kern, l’ex manager a capo delle Ferrovie di Stato che ha sostituito il predecessore Faymann senza passare dalle urne, non può sedersi troppo sugli allori. La mobilitazione trasversale che ha permesso al burbero indipendente con passato ecologista di contenere l’avanzata della destra non si ripeterà infatti alle prossime consultazioni e questo pone le attuali forze di governo di fronte alla non più rimandabile esigenza di ripensare la propria offerta politica. Nel frattempo, il baratro tra Vienna ed Eisenstadt continuerà ad approfondirsi. Quella di Alexander Van der Bellen rischia di essere una vittoria solo temporanea.
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