Partiti e politici
L’anomalia berlusconiana? La sua longevità politica
Diceva Montanelli nel 2001, prima delle elezioni politiche: “Berlusconi è una malattia che si cura soltanto con il vaccino, con una bella iniezione di Berlusconi a Palazzo Chigi, Berlusconi al Quirinale, Berlusconi dove vuole. Soltanto dopo saremo immuni”. Se avesse avuto ragione, oggi non saremmo qui a discutere, a oltre 20 anni dalla “discesa in campo”, di Berlusconi come leader politico.
E, invece, giovedì scorso, alla Camera dei Deputati, su iniziativa di Antonio Palmieri e della rivista ComPol, ci si è interrogati ancora una volta sul “Big bang di Berlusconi nella comunicazione elettorale italiana”, in un seminario multidisciplinare, ricco di riflessioni interessanti sul passato, sul presente e forse anche sul futuro di Berlusconi.
Dato per (politicamente) finito decine di volte, Berlusconi è sempre lì, da oltre 20 anni. E ancora oggi, dopo le elezioni regionali e amministrative recenti, c’è chi scommette che un centrodestra unito sarebbe ancora in grado di vincere (forse ancora con lui come federatore), a solo un anno di distanza dal 40,8% di Renzi e dalla – ennesima –presunta fine del leader di Forza Italia.
Ma qual è l’elisir di lunga vita politica, il segreto di un uomo che ha caratterizzato per intero la Seconda Repubblica, attraversando indenne i numerosi tentativi di detronizzarlo, ad opera di avversari, “meteore”, alleati e delfini ambiziosi. Occhetto, Segni, Bossi, Prodi, Rutelli, Bertinotti, Veltroni, D’Alema, Casini, Fini, Follini, Monti, Di Pietro, Ingroia, Bersani, Alfano stesso… Quanti di questi potrebbero candidarsi domani a diventare primo ministro? Lui molto probabilmente si, per la settima volta consecutiva.
Di segreti ne abbiamo cercati e individuati tanti in questi anni. Tra studiosi e opinionisti ci si è concentrati a lungo sul suo “impero mediatico”, sul patrimonio personale “fuori misura” (e quindi la capacità di spending anche per il partito), sul carisma e le capacità comunicative, ecc. Ma forse, a mo’ di sintesi, la categoria più interessante per racchiudere i suoi tanti “assi nella manica” è stata quella del cosiddetto “berlusconismo”. Una categoria antropologica, più che politica. Forse pre-politica, con ricadute importanti sul comportamento di voto.
Anche sul berlusconismo le tesi sono numerose e sarebbe complicato riepilogarne tutte le caratteristiche, nonché le posizioni pro e contro. Semplificando, potremmo dire che le figure dell’arci-italiano e del “sensocomunismo”, individuate da Repubblica già 15 anni fa potrebbero riassumerne sinteticamente i tratti più rilevanti. Il “berlusconismo” sarebbe, secondo questa impostazione, la capacità di sintonizzarsi con la “pancia” del paese, riuscendo anche a modellarla attraverso i palinsesti delle sue televisioni (e delle sue riviste), creando e perpetuando così quella “egemonia sottoculturale” (cit. Panarari) in grado di farlo vincere e rimanere ai vertici per decenni.
È una tesi che coglie diversi “pezzi di verità”.
Due cose tuttavia non coglie, a mio avviso:
– la portata globale del fenomeno: parlare di “berlusconismo” significa che tutto ciò si è verificato solo “grazie a” Berlusconi, e di conseguenza solo in Italia. Certo, la sua vicenda ha diversi tratti tipicamente “italiani”, specie se guardiamo alla sua storia individuale, ma se ci concentriamo sulle caratteristiche generali, sul “modello Berlusconi”, non possiamo non riconoscere che personalizzazione, leaderizzazione, spettacolarizzazione, partiti personali, rapporto non mediato tra leader e massa, populismo con sprazzi di antipolitica, marketing politico, politica “pop”, centralità della comunicazione, campagna elettorale permanente, narrazione/storytelling, sondocrazia, ecc. siano “derive” o innovazioni di portata globale nelle democrazie consolidate. Se ne parla in tutto l’Occidente da parecchi anni, in un crescendo continuo che prende avvio sin da quando sociologi e massmediologi si interrogavano sul rapporto tra società dei consumi e mezzi di comunicazione di massa, e sulle relative, quasi automatiche, conseguenze politiche;
– la sua longevità politica: se è vero che quelle caratteristiche poggiano sulla “società liquida”, post-ideologica, “consumistica”, alla perenne ricerca del cambiamento e della novità, che acquista e poi cestina leader politici in sequenza e in tempi brevi, il suo ventennio (peraltro non ancora esaurito) rappresenta indubbiamente un record assoluto. Nell’era dell’usa e getta e dell’obsolescenza programmata, un “bene” durevole fa notizia, indubbiamente.
Berlusconi probabilmente non ha inventato un modello politico, tanto meno antropologico. Piuttosto, egli ha fiutato la rivoluzione postmoderna e l’ha declinata in offerta politica prima degli altri, sfruttando ovviamente i vantaggi competitivi che aveva a disposizione. Ha cavalcato, dunque, il mutamento sociale in netto anticipo, costringendo gli avversari (e gli alleati) a una lunga e tormentata rincorsa che probabilmente può dirsi compiuta solo con l’arrivo di Matteo Renzi.
Quello che è più difficile da spiegare è la tenuta pluridecennale ai vertici della politica italiana, in una fase socio-politica in cui la fidelizzazione degli elettori andava progressivamente sfaldandosi. Ma in realtà credo che la risposta sia, anche in questo caso, insita nel ragionamento fatto prima. Berlusconi non ha solo fiutato e cavalcato il mutamento prima degli altri. È stato l’unico in grado di farlo, in pratica, fino all’anno scorso, riuscendo così a porsi al centro del bipolarismo “muscolare” italiano. Garanzia di longevità: come può sparire dal palcoscenico l’attore protagonista?
D’altronde, diversi analisti hanno segnalato per anni le difficoltà legate alla mancanza di leader “carismatici” nel campo avverso a Berlusconi (Diamanti e Calise, ad esempio). E fino a Bersani – incluso – tale segnalazione è caduta nel vuoto. Poi è arrivato Matteo, e la musica è cambiata.
Ma allora, sempre in ottica sistemica, dovremmo chiederci: perché il nuovo leader pop del PD sembra aver perso parecchio consenso in un solo anno? Perché l’inseguimento al “modello Berlusconi” è durato vent’anni, ma ora che è stato completato, si è anche diffuso, come una pandemia. Non è arrivato un solo Matteo, ne sono arrivati due… Senza dimenticarci di Beppe, anch’egli sintonizzato (eccome) con una parte del paese, più emotivamente che razionalmente, come si conviene di questi tempi.
Insomma, con sommo ritardo, la “lezione berlusconiana” – che altro non è che la derivazione politica della società liquida, consumistica, del disimpegno, dell’homo ludens, del narcisismo, della videopolitica, e chi più ne ha più ne metta, a partire da Debord e Baudrillard, passando per Postman, Bauman, Beck, Bourdieu, Sennett, Lasch, Giddens, Maffesoli, Sartori, ecc. – è stata finalmente appresa, interiorizzata e messa in pratica da tutti gli “imprenditori politici” che contano.
Ora sono tutti allineati con la società. E in quanto tali potenzialmente tutti precari, effimeri, grandi venditori di emozioni, sovraesposti su tutti i media per eccitarci con frasi a effetto, grandi performance e col loro privato utilizzato come argomento pubblico, per il “pubblico”. Ma l’eccitazione dura sempre meno e la delusione arriva in un tempo progressivamente sempre più breve. Col risultato, sistemico, che la politica è sempre meno legittimata e i partiti sono sempre più simili a comitati elettorali permanenti (o fan club, come preferisco definirli io). La disaffected democracy descritta da Pharr e Putnam nel 2000 è oggi nel pieno della sua evoluzione (o meglio involuzione).
È Berlusconi che ha prodotto tutto ciò? Per la tesi del “berlusconismo” come strategia deliberata, innovativa e “tutta italiana” per plasmare la società di massa, si. La mia tesi è uguale e contraria: siamo noi ad avere prodotto Berlusconi. E adesso che è un brand come gli altri, forse siamo anche pronti a cestinarlo. Il forse, con lui, è d’obbligo.
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