Partiti e politici
La zampata di Mattarella riporta Renzi sulla terra
“È inconcepibile indire elezioni prima che le leggi elettorali di Camera e Senato vengano rese tra loro omogenee”. Dopo una giornata nevrastenica, nei corridoi dei palazzi romani, Sergio Mattarella ha dovuto scendere in campo in prima persona e fermare le bocce. Con poche parole chiare registrate da Alessandro De Angelis per Huffington Post Italia e provenienti dalle stanze del Quirinale ha fatto pulizia di voci e strategie, contromosse e scalmane assortite.
Matteo Renzi e i suoi fedelissimi, asciugate le lacrime e rimessi nel cassetto i toni da statisti che ammettono la sconfitta, erano già pronti alla nuova ordalia: il voto a febbraio, dritto per dritto, con qualunque legge elettorale, fosse anche non armonizzata quella che doveva uscire dalla sentenza di Corte Costituzionale, di cui Mattarella è stato membro e di cui ben conosce le regole, fissata per il 24 gennaio. La linea Lotti-Renzi, quella che vuole quel 40% di Sì come un voto tutto renziano, e tutto replicabile, doveva – nei piani del premier – diventare quella del partito democratico. E quindi, chiudere in fretta la legge di stabilità, e preparare in fretta gli scatoloni perché, tra Natale e tempi tecnici, l’agognato voto di febbraio sarebbe arrivato subito.
Mattarella, che non ha gradito il tentativo di Renzi di cristallizzare il futuro a reti unificate, appena un’ora dopo la chiusura delle urne, dopo avere contestato le scelte e ricordato le prerogative del Colle, ha dovuto tornare in campo, proprio per diradare la nebbia e indicare il percorso. Un percorso “obbligato” dalla Costituzione, nonché dalla contingenza. Perché è vero che il 24 gennaio arriva la sentenza della Corte Costituzionale chiamata a pronunciarsi sull’Italicum, ed altrettanto vero è che in pochi scommettono sulla probabilità che la sentenza renda la legge elettorale prontamente applicabile e, appunto, armonizzata tra le due camere. Molto più probabile, appunto, che si debba trovare un accordo tra le forza parlamentari per una revisione della legge elettorale. Magari i tempi saranno fulminei, ma magari no, e non per colpa del bicameralismo perfetto. Difficile insomma immaginare che una legge ci sia prima di marzo, magari inoltrato. Difficile ipotizzare teoriche urne prima della primavera, inoltratata anch’essa. Ma sarebbe un’opzione, a quel punto, non certo un obbligo, a meno di un anno dalla scadenza naturale della legislatura.
Lo scenario sigillato dalle parole di Mattarella – meglio: da esse reso chiaro, che difficilmente era ipotizzabile altro, sulla base del buon senso richiamato dalla stessa fonte quirinalizia – pongono Matteo Renzi davanti a un bivio. Da domani l’ipotesi di un suo reincarico pieno, non per pochi giorni per chiudere la legge di stabilità, tornerà per forza di cose in campo. Non si tratta di non credere al suo frettoloso e commosso saluto di domenica notte, ma, appunto, di ripartire dalle regole istituzionali e della prassi costituzionale. Sono cambiate le condizioni politiche che permettevano al suo governo di esistere e di fare molte cose, continuamente rivendicate? Di fatto, solo Renzi può dire se per lui quelle condizioni sono davvero esaurite, e se un reincarico è davvero escluso. Se accetta Renzi sa che il martellamento sulle sue fulminee dimissioni e sulla nuova giravolta sarà forte, ma almeno avrà davanti un anno per governare i processi e provare a riallacciare i fili con un pezzo di paese. Di più, sarà nel cuore della politica romana, dove si deciderà la decisiva partita della legge elettorale.
Se invece dovesse dire ancora e sempre di no, allora dovrà decidere come muoversi nel partito, quello stesso partito democratico che ha in parlamento truppe per lo più non renziane, in origine. I fedelissimi originari o acquisiti dal premier sarebbero un centinaio. E gli altri? Dario Franceschini, storicamente vicino al presidente della Repubblica, lavora da giorni per un reincarico di Renzi: che nessuno possa dire che cospira e congiura. I giovani turchi, apparentemente molto riavvicinatisi a Renzi, sono in realtà assai sensibili al richiamo del Colle. La minoranza, per definizione, sta dove non sta Renzi. Il quale, in caso di nomina di altro governo, avrebbe diverse spine e poche rose tra le dita. Un governo tecnico troppo filoeuropeo finirebbe con ingrossare le grida grilline e leghiste, da un lato, per poi far pagare il conto al pd al prossimo voto, dall’altro. Per informazioni, citofonare Bersani mostrando foto di Monti e Fornero. Un governo politico a traino Pd finirebbe comunque col creare un dualismo e una tensione tra un segretario del partito – a proposito, il mandato di Renzi segretario scade comunque fine 2017 – non proprio a suo agio, quando al governo c’è un altro, e un presidente del consiglio che non potrebbe dimenticare facilmente gli ultimi inviti alla serenità. Per Renzi, in ogni caso, sarebbe complicato usare le sue truppe parlamentari per minacciare un presidente consiglio sostenuto dal pd. Non sembrerebbe infatti un agire particolarmente responsabile. E poi c’è un altro ma: a bordo della partita, più decisivo che mai, c’è Silvio Berlusconi. Una sua disponibilità a sostenere il governo risolverebbe i patemi numerici che vive ogni giorno il governo Renzi al Senato. A quel punto, minacciare la crisi coi suoi cento deputati, sarebbe non solo politicamente difficile: sarebbe proprio matematicamente impossibile.
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