Partiti e politici

La vera vittoria di Berlusconi: il Pd è un non-partito, come Forza Italia

2 Ottobre 2016

Il Pd che si appresta ad affrontare il referendum costituzionale è una sorta di “non partito”. Così viene descritto il corpaccione della “ditta” da chi quell’organismo lo conosce bene. Per avere notizie sullo stato di salute del Pd in vista del referendum si devono andare a sfrucugliare gli esponenti della minoranza. “Il partito semplicemente non c’è più: gli iscritti si sono dimezzati, le sezioni sono vuote, molte segreterie locali sono senza guida, la gente non partecipa più: sembra una lenta agonia in attesa della fine”, è il quadro drammatico che ci viene fatto da un deputato della minoranza che sta a metà tra cuperliani e bersaniani. Quello che una volta era il partito del popolo, dunque, assomiglia sempre più a Forza Italia. “Per scherzare lo chiamiamo il Pdr, il partito di Renzi, che non sarebbe necessariamente un male se il segretario, o chi per lui, se ne occupasse. Ma il problema è che a questa nuova classe dirigente del partito non interessa un fico secco: Matteo l’ha usato come un tram per arrivare a Palazzo Chigi e ora gli è pure d’impiccio. Fosse per lui l’avrebbe già liquidato per fare il partito della nazione con Verdini e Alfano”, continua la nostra fonte.

Nel 2015 sono stati dichiarati circa 300 mila iscritti, ovvero la metà degli anni precedenti. Quest’anno ancora non ci sono numeri, segno che potrebbe esserci un tracollo. In alcune zone d’Italia il tesseramento non è nemmeno partito. Dalle sezioni arrivano al Nazareno lettere di protesta, a volte documenti sottoscritti da più sezioni, per aver una linea organizzativa o, più semplicemente, per denunciare un calo di partecipazione devastante. Ma dalla sede centrale non esce un fiato. Non ci sono spazi di discussione né al centro, né tanto meno in periferia. La segreteria, per esempio, non viene convocata da un anno e mezzo. Mentre la direzione ormai segue sempre il medesimo copione: show in streaming di Matteo Renzi, repliche anche puntute (come quella di Gianni Cuperlo a luglio: “Ti manca la statura del leader, coltivi l’arroganza del potere”), chiusura ancora di Renzi, voto che approva la mozione del segretario. “Una pantomima, tanto che molti di noi nemmeno ci vanno più”, dicono dalla minoranza.

Il partito sembra sempre più allo sbando. “Lorenzo Guerini (il vicesegretario, ndr), poveraccio, fa quello che può, Deborah Serracchiani nemmeno quello, ma tanto poi Luca Lotti da Palazzo Chigi ridisfa la tela e decide, anzi non-decide, tutto lui”, raccontano le voci dei dem. Dopo le sconfitte alle Regionali, per esempio, Veneto e Liguria sono state commissariate e ancora non si eleggono nuovi segretari. Così anche a Roma, dove commissario è tuttora Matteo Orfini, il presidente del partito, che si aggira per Montecitorio ancora col fantasma di Ignazio Marino sulla spalla. Commissariate da tempo sono pure Caserta, Enna e Messina.

Per tutti questi motivi molti aspettano il referendum come una liberazione. Perché se vincerà il Sì, al prossimo congresso Renzi spianerà definitivamente la minoranza interna che, a quel punto, sarà costretta a levare le tende e migrare altrove. In caso contrario, invece, la minoranza (assai frastagliata anch’essa al suo interno tra bersaniani, cuperliani, dalemiani cioè D’Alema, giovani turchi, ecc..) potrà lavorare a una candidatura alternativa credibile. Enrico Letta, per esempio, o Fabrizio Barca. Oppure il governatore toscano Enrico Rossi, che in questi giorni sta girando l’Italia come una trottola per presentare un libro dove viene intervistato da Peppino Caldarola dal titolo emblematico: Rivoluzione socialista. “Il 4 dicembre? Magari farà freddo…”, ha detto commentando la data scelta da Renzi per il referendum.

“Ci aggrappiamo al No perché solo in questo modo possiamo salvare il partito. Altrimenti non ci resterà altro da fare che andarcene”, raccontano ancora le voci della minoranza. Che spesso interagiscono con quelli che se ne sono già andati. Come Pippo Civati, per esempio. “Questo referendum sta ampliando la divaricazione tra la base e il vertice del partito: molti militanti chiedevano solo un luogo dove discutere e confrontarsi sulla riforma, ma hanno trovato porte chiuse. Così, per reazione, si orienteranno verso il No”, osserva l’ex piddino. Insomma, Renzi più che andare a conquistare voti a destra, come ha detto al Foglio, dovrebbe preoccuparsi di non perdere consensi tra i suoi. Più pessimista un altro ex, Alfredo D’Attorre, ora in Sinistra italiana. “In entrambi i casi, vittoria del Sì o del No, il partito si dividerà perché maggioranza e minoranza sono ormai due mondi incompatibili, che non si parlano e, anche se si parlassero, non si capirebbero. Restare sotto lo stesso tetto non ha davvero più senso”, spiega D’Attorre.

Partito al capolinea, dunque? Difficile dirlo, anche perché gli elettori dem non sono evaporati, anzi. Il Pd nei sondaggi della maggior parte degli istituti italiani viaggia tra il 30 e il 32%, contro il 25,4 delle Politiche del 2013. Non sarà il miracolo 40,8% delle Europee del 2014 (risultato dopato dalla novità Renzi), ma è comunque sempre il primo partito, sopra i grillini. Considerando il fatto che un po’ di voti di piddini anti-Renzi stanno alla finestra (astensione) o si sono (momentaneamente?) rifugiati nel M5S, il partito dal punto di vista elettorale, e nonostante la sconfitta alle amministrative, non sta messo male. Detto questo, il 4 dicembre non sarà solo la data in cui sapremo che fine farà la riforma costituzionale, ma anche quello in cui i militanti del Pd conosceranno l’identikit del loro partito nel prossimo futuro.

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