Partiti e politici

La sinistra riparta da…

6 Ottobre 2022

Un’analisi delle analisi della sconfitta

Sciogliere il partito, cambiarne nome, spostarsi al centro, guardare a sinistra, uscire dalla ‘ZTL’, aprirsi alla società civile, fare un congresso costituente, coinvolgere gli amministratori locali, passare il testimone ad una nuova generazione, trovare una leader donna, affidarsi ad un leader carismatico. Anche a questo giro, tutti hanno la soluzione giusta “per salvare la sinistra”. L’analisi della sconfitta, a sinistra e dintorni, è uno sport irrinunciabile, che coinvolge elettori e militanti, analisti e dirigenti. Come siamo tutti un po’ CT della nazionale di calcio, cosi siamo anche un po’ tutti segretari del PD. Ecco dunque un’analisi delle analisi della sconfitta.

 

I liquidatori

I più rumorosi sono quelli che il PD lo vogliono liquidare e archiviare perché è un partito nato male, troppo tardi, troppo presto (copyright di Rosy Bindi), mai nato. Una fusione a freddo tra due apparati che non ha mai scaldato i cuori degli elettori, e via dicendo con tante altre belle frasi fatte. Il PD ha senza dubbio qualche problema, è un partito che, in meno di quindici anni, ha bruciato cinque segretari, tre ‘reggenti e quasi 7 milioni di voti, raggiungendo percentuali più basse di quelle del PDS/DS negli anni Novanta. Nondimeno, il PD continua a rappresentare una forza in cui si riconosce un quinto degli elettori italiani, uno dei partiti del centrosinistra più votati in Europa. Proporne lo scioglimento rischia di essere una soluzione di facciata incapace di risolvere la crisi del PD e della sinistra. Curioso, poi, che a suggerire lo scioglimento del PD sia, soprattutto, chi ha già abbandonato il PD per lanciarsi in avventure disastrose che non hanno raccolto che le briciole dei voti che il PD ha perso: D’Alema, Renzi, Calenda. Manca giusto l’appello di Rutelli, ma forse me lo sono perso. Sciogliere il PD per cosa? Cosa cambiò quando il PDS si sciolse nei DS, o quando il PPI confluì nella Margherita? Nulla. Furono operazioni di puro maquillage messe in scena da classi dirigenti mosse da puro istinto autoconservativo. Diffidate da ogni palingenesi, il problema del PD non è il PD.

 

I brand managers

Un tempo l’analisi della sconfitta richiedeva lunghe fasi di analisi ed elaborazione, le svolte erano precedute da interminabili dibattiti, articoli, studi. DC e PCI impiegarono tre anni per realizzare il primo governo di Solidaritetà Nazionale (Andreotti III) nell’ambito del compromesso storico teorizzato da Berlinguer dopo il golpe in Cile del 1973. Sempre al PCI servirono il collasso dell’URSS, due anni di discussioni e tre congressi per diventare PDS. Oggi, invece, c’è chi pensa basti cambiare simbolo, o togliere “partito” dal nome per diventare improvvisamente convincenti e vincenti. L’idea di “togliere la P”, questa volta, l’ha buttata lì il romano Morassut, non tenendo conto dell’effetto boomerang che tale decisione potrebbe avere. Politica sottomessa alle regole marketing, coi contenuti e i programmi che diventano irrilevanti rispetto alla cura del brand. Ma cambiare nome al PD non convince neppure gli esperti di marketing politico.

 

I moderati, riformisti, centristi

Forti di un consenso costruito nelle tv e sui giornali più che nella base del partito o tra gli elettori reali e potenziali, i centristi orfani di Renzi non hanno mai davvero smesso di logorare i successori di Renzi, insistendo su un non meglio precisato riformismo, sulla caccia ad un voto moderato che, dati alla mano, non esiste. Chiedono “una forte collaborazione politica all’opposizione con il Terzo Polo” (copyright Andrea Marcucci) fingendo di non capire che il PD ha perso i voti -e tanti- soprattutto a sinistra, e che da lì bisognerà ricominciare per provare a recuperarli.

 

Donne che fanno mozioni per le poltrone delle donne

C’è chi crede che al PD serva una leader donna che possa finalmente colmare il ritardo della sinistra italiana. Ma mentre tante militanti si impongono facendosi valere in un partito di uomini (oltre il 60% degli eletti), le donne della direzione del PD reclamano per le capogruppo uscenti, Serracchiani e Malpezzi, le presidenze dei gruppi parlamentari e, per una terza donna, anche la vicepresidenza della Camera. La questione di genere non è, però, una questione di poltrone, e non dovrebbe essere lasciata a chi, come Serracchiani e Malpezzi, sempre dalla parte dei segretari di turno, condivide con gli uomini del PD tante responsabilità per la lunga crisi del partito.

 

Quelli che “con questi dirigenti non vinceremo mai”

Lo gridava, rassegnato, Nanni Moretti da un palco di Piazza Navona un febbraio di vent’anni fa. L’anno prima, 2001, una sinistra divisa in tre (suona familiare?) aveva spianato la strada alla Casa della Libertà di Berlusconi, Bossi, Fini e Casini. Il regista rinfacciava ai dirigenti dell’Ulivo (alcuni dei quali sono diventati i padri nobili e i dirigenti del PD di oggi) di non aver saputo trovare un accordo con Bertinotti e Di Pietro, proprio come qualcuno potrebbe rimproverare a Letta la rottura con Conte o la mancata alleanza con Calenda. Errare è umano, ma perseverare è diabolico. La crisi del PD è il risultato di un gruppo dirigente autoreferenziale e inadeguato eppure capace di riciclarsi ad ogni cambio di segreteria, garantendosi posti nelle liste elettorali e in tutti e cinque i governi cui il PD ha preso parte dal 2013 ad oggi. Non sarà certamente un cambio di nome o di simbolo, né tantomeno un nuovo partito a risollevare le sorti della sinistra. Ma non basterà nemmeno un cambio di leadership, se il grosso del corpo dirigente non cambia. Serve una profonda svolta generazionale, a tutti i livelli: chi è stato veltroniano, franceschiniano, bersaniano, renziano, zingarettiano e lettiano, oggi, dovrebbe farsi da parte.

 

Quelli della svolta ‘radicale’

Fanno meno rumore, non hanno slogan ma una chiara idea di sinistra e del partito che deve rappresentarla. Chiedono un confronto aperto tra conservatori e radicali, tra i nostalgici del blairismo e fautori di una svolta che archivi per sempre le politiche e i paradigmi del neoliberismo. Fabrizio Barca, da anni attento osservatore del Paese e del variegato mondo di sinistra col suo Forum Diseguaglianze e Diversità ha descritto i tratti di questa svolta radicale sul Manifesto. Giuseppe Provenzano fa autocritica e riconosce che “la lotta alle diseguaglianze non era nel certificato di nascita del PD”. Si chiede dunque una riflessione sull’identità che faccia finalmente chiarezza, anche a costo di perdere qualche pezzo. La sinistra si salva se recupera credibilità nei confronti di chi ha smesso di andare a votare, se ritrova la capacità di capire e parlare con chi sta in fondo alla piramide sociale, tornando nelle scuole, nei luoghi del lavoro, nelle periferie, ma anche nei centri commerciali e ovunque ci sia il popolo. La sinistra, insomma, si salva se ritrova se stessa.

 

Come andrà a finire?

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