Partiti e politici

La scuola, palestra di populismo

20 Dicembre 2018

È nota l’accorata raccomandazione rivolta dal Ministro Bussetti ai docenti affinché riducano il carico dei compiti delle vacanze di Natale per consentire così ai ragazzi di trascorrere più tempo in famiglia, con gli amici. L’appello contiene, tuttavia, un intrinseco vizio concettuale, dannoso per la scuola in sé, per i docenti, per i ragazzi.

L’esortazione agli insegnanti, prima di tutto, non tiene conto della notevole durata della fase di interruzione didattica nel periodo natalizio: i giovani al rientro a scuola si troveranno di fronte a un tour de force che coincide con la chiusura del quadrimestre e l’imminenza degli scrutini, dovranno perciò completare le interrogazioni e le prove scritte deliberate dal collegio dei docenti e che la normativa prevede siano in numero congruo a fornire una valutazione adeguata dei livelli di apprendimento raggiunti dagli alunni, a meno che non si voglia che i docenti smettano di fare il loro dovere per poi essere accusati di inadempienza! Qual è, dunque, il fattore ostativo a  utilizzare i giorni della pausa natalizia per mettere a punto conoscenze, definire gli argomenti affrontati in classe e, sì, fare i compiti?

L’appello del Ministro sembra, poi, davvero ingenuo: è proprio certo, il Ministro, che siano i compiti assegnati dagli insegnanti ad impedire ai ragazzi di trascorrere il loro tempo  in famiglia? È davvero sicuro che, ridotti i compiti, i ragazzi non faranno tardi la sera, non giocheranno alla play station e se ne staranno intorno al camino con i loro genitori a cantare “Tu scendi dalle stelle” e al mattino, con i loro cari, correranno a visitar musei?

Tra l’altro, il Ministro non sa, forse, che i compiti sono ormai un retaggio del passato e che le avanguardie didattiche li hanno resi ormai superflui e superati? Si lavora a scuola, i docenti non trasmettono più contenuti, coordinano i gruppi di ricerca nelle aule, dove i ragazzi, da soli e fieri della loro conquistata autonomia,  vanno alla scoperta di soluzioni sempre pronte a problemi sempre risolvibili: è il problem solving, Ministro!

Le parole del Ministro, va detto, fanno male alla scuola e offendono i docenti. Sono l’espressione di quel misero populismo leghista e pentastellato che, per conservare e aumentare consensi politici, accarezza e cavalca i desideri dei ragazzi e delle loro famiglie. E i genitori “spazzaneve” sono ben contenti. “Spazzaneve”: li definisce così Annamaria Testa. Sono genitori pronti a semplificare il cammino dei figli, a spazzare via ogni ostacolo, a spianare la strada verso  successi che devono essere garantiti. Gli stakeholders, i clienti di una scuola aziendalizzata, devono avere sempre ragione, vanno assolutamente accontentati. E se i docenti si ostinano a dare dignità al loro ruolo, a considerare lo studio a casa un mezzo ancora utile a permettere ai ragazzi una riflessione seria, matura, responsabile e personale sui contenuti – un mezzo che, certo, richiede anche un po’ di fatica e di impegno – allora gli insegnanti vanno redarguiti,  fermati con appelli pubblici e ancora una volta presentati come i “nemici”, addirittura colpevoli di impedire ai ragazzi il pieno godimento della vita che è fatta di calcetto, palestra, piscina e fidanzati, come, peraltro, sempre più spesso i genitori fanno osservare ai docenti durante i colloqui. Ora il Ministro aggiunge un tassello in più: gli insegnanti hanno una “colpa” sociale, quella di allontanare i ragazzi dal calore familiare, a causa dei compiti che assegnano. Lo studio, insomma, diventa un’arma letale, i docenti sono rappresentati come aguzzini e la scuola è il luogo in cui hanno origine misfatti di grave rilevanza per la collettività. Gli insegnanti, per essere precisi, sarebbero all’origine del male del secolo: la disgregazione delle famiglie, per colpa dei compiti!

Certo, vivere. I ragazzi devono vivere. Ma in una scuola che si limita ormai quasi solo ad addestrare un capitale umano da reinvestire sul mercato del lavoro, quale spazio si lascia alla vita?

Una scuola che è ormai un luogo di aggregazione (parola in cui si sente forte l’eco dell’etimo “gregge”) e non di relazione, asfittica a cominciare dalla disposizione dei banchi e delle sedie su cui i ragazzi sono seduti dandosi le spalle senza potersi guardare negli occhi, una scuola del “fare” e chissà perché non del “pensare”, delle competenze  e chissà perché non delle conoscenze,  sempre laboratoriale, economicizzata pure nel linguaggio (crediti e debiti la rendono più simile a una banca, che non a un luogo di cultura), militaristicamente sospesa tra esercitazioni e strategie (didattiche o di apprendimento), come se le classi fossero legioni e non parti vive di umanità, ebbene una scuola che i ministri dell’istruzione hanno voluto così, può davvero insegnare a vivere?

Ivano Dionigi, nel suo recente saggio Quando la vita ti viene a trovare, osserva giustamente che i latini, da molti considerati i rappresentanti di un passato inutile e inadeguato alla cultura tecno-pratica che il capitalismo ha imposto, sapevano che studiare serve a intelligere (leggere dentro e tra le cose, scoprendone le relazioni) a interrogare (saper abitare le domande, e non illudersi di avere certezze) a invenire (“trovare” quanto di noto abbiamo accantonato, ingenuamente e precipitosamente rottamandolo, e “inventare” quanto di nuovo c’è ancora ad attenderci).

Invece i nostri politici sembrano impegnarsi a deridere e a svilire lo studio. Hanno, in effetti, una visione del mondo e delle cose aproblematica e forse lo studio metterebbe in crisi le loro certezze. Procedono per categorizzazioni semplificate e pronunciano le loro elementari convinzioni come assiomi dall’evidenza lampante e, così, si offrono pubblicamente sorridenti e soddisfatti in pasto ai loro followers; non solo non si adirano, ma sono forse orgogliosi se sul web circolano immagini che li ritraggono languidamente tra le lenzuola in compagnia di avvenenti fanciulle che testimoniano il loro machismo – a dire il vero ideologicamente vintage – e postano immagini di spaghetti al ragù, certi, senza ombra di dubbio, che debbano, ovviamente, essere apprezzati da tutti.

Solo studiando e facendo i compiti, i nostri ragazzi riusciranno, invece, a capire che vivere non vuol dire riempire i social di selfie e che il videor ergo sum è solo un’interpretazione triste della vita, quella che resta a chi non ha altro.

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