Partiti e politici
La scissione di Renzi tra tattica e strategia
Matteo Renzi fa la cosa più coerente che potesse fare:uscire dal Partito Democratico, in virtù di una distanza culturale che, se ieri – quando era segretario e il leader del 41% – era sottotraccia, oggi si sta facendo sempre più evidente. E, per paradosso, la sua uscita permette al Partito Democratico di prendere una forma più definita. Un partito che fu fondato con ambizioni maggioritarie e che oggi si trova sulla soglia di una riforma elettorale di stampo proporzionale. Un partito che ha sempre mal sopportato l’impostazione maggioritaria ed è stato sempre contrario ai vari tentativi tesi a far assomigliare la nostra repubblica parlamentare in una “presidenziale” (da qui il “no” da parte di molti esponenti piddini al referendum del 4 dicembre del 2016), paventando il pericolo del ritorno al fascismo. Una vocazione maggioritaria mai propriamente sentita, quanto indotta da quello che era un sistema bipolare e in funzione anti-berlusconiana. Mentre oggi, in un sistema tri-polare, il Pd può tornare alla sua più recondita vocazione proporzionale in chiave anti-salviniana.
Ad ogni modo, il processo di maturazione del Partito Democratico è sempre andato a rimorchio delle vicissitudini del momento politico e raramente ha anticipato i tempi. E quando ha trovato un leader “alla Berlusconi”, ovvero caratterizzato da una forte leadership e arrogante decisionismo, si è piegato in maniera opportunistica, ma mai convintamente. C’è sempre stata in esso una resistenza sottile, carsica, ma pur sempre indistruttibile. Ma d’altronde, in un panorama politico popolato da partiti “personali”, è rimasto l’unico partito veramente contendibile. La sua croce e delizia, ma pur sempre una ricchezza. E proprio per questo suo essere contendibile appare oggi in totale controtendenza a fronte della maggioranza dei partiti oramai “personali” – ultimo quello di Renzi – che nascono e muoiono con i propri leader. E’ evidente che questo elemento gli ha assicurato la propria sopravvivenza negli anni.
Tornando alla scelta di Matteo Renzi, l’alleanza Pd-Movimento 5 Stelle mette in luce una dicotomia: quella tra i “no-global romantici” versus i “liberali pragmatici”. I primi accomunati tra di loro da concetti come: la decrescita felice; la neo-religione ecologista – sulla quale si fonda il “green new deal”, del quale al momento non è dato di sapere nulla in concreto e pare sempre più una confusa formula per giustificare un po’ di spesa pubblica agli occhi di Bruxelles; l’assistenzialismo di Stato; la difesa a oltranza del settore pubblico e delle aziende di Stato decotte; il giustizialismo a corrente alternata; il sovente dissenso nei confronti delle grandi opere – no Tav, no Triv, no Tap; un terzomondismo che porta spesso ad assolvere di principio temerari tiranni, a patto che questi si dicano “anti-capitalisti”; la tendenza a individuare con sovente ciclicità il pericolo fascista dietro ogni avversario politico; la retorica dei poteri forti più o meno massonici e mafiosi e per finire, una costante avversità al riformismo. I secondi, i liberali pragmatici, si identificano in una dimensione post-ideologica, libera dal dover giustificare ogni scelta riformista da diktat, appunto ideologici e sarebbero ben contenti di trovarsi un una Repubblica presidenziale con una legge elettorale maggioritaria a doppio turno. Proprio in virtù di quanto scritto sopra, la scelta di Renzi era una strada segnata e quasi una scelta obbligata. Ed è un bene che l’abbia compiuta. Tanto che, sia da una parte che dall’altra, al netto del dispiacere di rito, sono tutti contenti.
Ad oggi, a chi gli dovesse imputare di essere stato tra i maggiori artefici del governo Pd-M5S, Renzi può ben replicare che un conto è prefigurare un governo di breve periodo per mandare a casa Salvini e sterilizzare l’aumento dell’Iva e ben altra cosa è preconizzare un governo di legislatura, come proposto da Goffredo Bettini e subito eseguito dai suoi. Tatticamente potrà, una volta fatta la prossima legge finanziaria, iniziare a porre sul tavolo le sue condizioni. E, laddove dovesse trovare opposizioni da parte del M5S e del Pd, inizierà la sua campagna elettorale. Renzi adesso potrà avere mani libere nel contendere l’agenda politica a questo governo, proprio perché ha in mano la golden-share sul destino del Conte bis. Potrà così contrastare i grillini da una parte e i piddini dall’altra, vantandosi di essere stato lui – e non certo Zingaretti, che voleva andare subito al voto – ad aver mandato a casa Salvini.
E qui viene la strategia: ma spazio politico ce n’è? Dovrebbe essercene se è vero che da almeno un lustro più di un commentatore politico va scrivendo che c’è un pezzo di elettorato che vorrebbe tanto un partito di centro liberale, alla “La République En Marche” di Emmanuel Macron. Anche se sarebbe buona cosa non far paragoni con la situazione politica francese. Lì c’è una Repubblica presidenziale con tutte le conseguenze del caso. Macron al primo turno prese il 24% per poi imporsi al ballottaggio contro Marine Le Pen, il cui Front National sempre al primo giro conquistò il 21%. In Italia, ben che vada, potremmo avere una legge elettorale proporzionale, ragione per la quale, al massimo, Matteo Renzi potrebbe fare l’ago della bilancia. Ben poca cosa rispetto alle velleità liberal-riformiste della sua neonata creatura. Insomma, non proprio “en marche”, quanto “au milieu”.
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