Partiti e politici
La retorica del tutto va bene? Non funziona più
A Facebook manca l’opzione “non mi piace”. Il successo di un post sta nell’unica scelta del “like”, o viceversa, nell’indifferenza del “non me ne frega nulla”. Anche Twitter funziona allo stesso modo: se 140 caratteri ci piacciono molto retwittiamo, se ci piacciono solo un po’, mettiamo la stellina. L’opzione “non mi piace” non è prevista.
La spiegazione è semplice: in un mondo forzatamente narcisista vogliamo piacere, fortissimamente piacere. Esiste persino una sorta di mercato generale online del gradimento, dove per pochi euro si possono comprare pacchetti di like o di retweet. Si è disposti a pagare per far vedere che si piace. Il “non mi piace” è perdente. Non è un’opzione.
Ma è proprio così? Non è che forse, almeno un poco, ci stiamo annoiando di quelli che piacciono?
Il premier che piace, Matteo Renzi, il premier dei like, dei retweet esce a pezzi dalle recenti elezioni amministrative. Eppure ha fatto di tutto per piacere, si è presentato in tutte le Regioni con un claim che, guarda un po’, mirava proprio al gradimento, al piacere che dalla politica quasi sfuma nell’estetica : “Bella l’Italia che riparte”. L’hashtag #bellaeforte è stato forse uno dei meno virali della storia del grande comunicatore Renzi: e l’insuccesso generale di queste elezioni dimostrano che la narrazione della bellezza non basta più. In toscano si direbbe: è venuta a noia.
L’impresentabile De Luca, quello che per definizione – certificata su carta bollata a tre giorni dal voto dall’implacabile Rosi Bindi – non piace, ma ha vinto in Campania. Impresentabile, non piacente, con un accento e un eloquio un (bel) po’ sopra le righe? #atestaalta ha risposto lui, fiero di non piacere. Così prima ha sbancato le elezioni, poi è corso a denunciare la Bindi.
Toti non piace, commette strafalcioni geografici (Novi Ligure?), lo chiamano Gabibbo e le camicie bianche stretch certo non gli rendono onore – nonostante il soggiorno da Messegue – ma vince in Liguria.
Ghinelli, quello che non piace, quello che è vecchio, quello che si veste come capita, vince ad Arezzo contro Matteo Bracciali, giovane, bello, vincente, biondo e impeccabile in camicia bianca, insomma quello che piace.
Certo per la sconfitta esistono delle motivazioni politiche, scelte sbagliate dei temi dell’agenda politica degli ultimi mesi (scuola, immigrazione, corruzione della politica), esistono guerre interne al lacerato Pd. Certo esistono. Così come fiumi di inchiostro si sono spesi a raccontare della fine dalla narrazione della rottamazione, del Renzi 2 che deve tornare il Renzi 1 e così via. Tutto vero. In fondo, il premier giocava alla Playstation mentre il suo PD perdeva le elezioni con dati al di sotto di ogni previsione: quelle foto, postate a raffica da Nomfup, sono state il primo epic fail della comunicazione renziana. Piacere a tutti i costi, sempre, essere ganzo sempre, sereno in camicia a giocare ai videogiochi pur nella sconfitta. Ma da sempre, nei libri come nei film, chi perde piace proprio perché è perdente, non perché si finge vincente nonostante tutto. Quindi, Renzi ha perso le elezioni, ha spento la Playstation e ha cambiato videogioco di se stesso: ecco il passaggio dal livello Renzi1 a Renzi2.
La gente incomincia allora ad essere annoiata di scegliere i propri rappresentanti mettendo i “like”? E se davvero la gente fosse più attratta dal “modello Merkel” – che certamente non piace – centrato sulla forza di una visione strategica, sulla capacità di fare scelte impopolari, sulla fiducia che il non essere capiti oggi non significa necessariamente fare la cosa sbagliata?
In un vecchio intervento ospitato nel 2013 su Quotidiano Europa lo spin doctor di Tony Blair, Alastair Campbell, ricordava più o meno la stessa cosa: “definire la propria realtà in base ai media di giornata è quasi sempre un errore”. E’ con il tempo che il tuo messaggio arriva. E’ con il tempo che i tuoi cambiamenti sono compresi. E’ con il tempo che la gente diventa più ragionevole nei suoi giudizi. E’ avendo il coraggio di non piacere oggi che si è in grado di essere veri rivoluzionari (rottamatori?) domani.
Peraltro la gestione del potere, la responsabilità di questa gestione prescinde dalla immediatezza di un like. Gestire il potere significa avere il coraggio di avere sulla propria pagina Facebook – se solo si potesse – migliaia di “dislike”.
La retorica del tutto va bene, quanto ci piacciamo, siamo tutti in sintonia non funziona più. Ci siamo annoiati. Forse, in fondo, per essere cinici e continuare a pensare che politica sia soprattutto comunicazione si deve, tutti noi, imparare a comunicare ciò che non piace. Ecco la nuova sfida.
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