Partiti e politici
La retorica del Draghi pacificatore è già archiviata (e va bene così)
Ma come, non stavamo parlando con convinzione del “grande pacificatore”? L’assalto neofascista alla CGIL di Roma non aveva fatto emergere un asse non scalfibile tra il presidente del Consiglio Mario Draghi e Maurizio Landini? Quanto tempo è passato? Come spesso capita, nel nostro paese e nella nostra epoca, sembra tutto successo tanti anni fa, e invece si tratta di meno di due settimane. Tanto poco è passato dalla visita del presidente del Consiglio alla sede del sindacato, sancita da un’immagine diventata icona e simbolo molto, forse troppo in fretta.
Se riavvolgiamo di un poco il nastro, infatti, quell’immagine servì a seppellire diversi punti di contrasto che erano ancora molto freschi. Primo tra tutti, la diversa posizione sul Greenpass, sulla cui utilità, estensione e legittimità Draghi non aveva alcun dubbio, a differenza di Landini. Il fascismo e l’antifascismo servirono ad archiviare molto in fretta un conflitto vero e serio, su una questione seria. Sia detto per inciso: archiviare mediaticamente quel conflitto faceva ragionevolmente comodo a entrambe le parti, al governo che soffre nemici a sinistra e alla Cgil cui non poteva piacere troppo la compagnia di no greenpass leghisti, nostalgici o apertamente fascistoidi.
Come sempre, tuttavia, la realtà perdurà e i conflitti che esistono davvero nel presente emergono e si rappresentano. La distanza tra il governo Draghi e i sindacati riemerge con prepotenza in questi giorni, sul tavolo delle pensioni. Draghi spinge per un rapido ritorno al regime ordinario, cioè alla riforma Fornero, archiviando in fretta quota cento, fortemente voluta dalla Lega. I sindacati, che rappresentano per lo più lavoratori maturi, per i quali quindi la pensione è un obiettivo prossimo venturo, si oppongono duramente. Ieri il tavolo è saltato piuttosto in fretta, i giornali raccontano che Draghi se n’è andato sbattendo la porta mentre Landini promette una mobilitazione. Nel merito, la discussione sarebbe lunga e articolata. Se è vero che storicamente la spesa pensionistica è stata abnorme nel nostro paese, altrettanto resta vero che molti lavoratori – e soprattutto lavoratrici – svantaggiati meriterebbero di non essere trattati come privilegiati che vogliono andare in pensione – e con pensioni davvero modeste – dopo più di quarantanni di lavoro. Meriterebbero, insomma, di non sentirsi fare la predica nè dal governo nè, tantomeno, da opinionisti di varia estrazioni ma tutti accomunati da redditi e condizioni di lavoro che ovviamente rendono più sopportabile – se non addirittura auspicabile, andare in pensione ad almeno 70 anni. Naturalmente, non mancano ottime ragioni per abolire “quota cento”, magari trovando la giusta gradualità e, soprattutto, valorizzando davvero condizioni di lavoro e di vita usuranti.
Nel metodo, che è ciò che qui preme di più, sarebbe bello che la parabola politica e comunicativa qui rappresentata servisse da monito per il futuro: i conflitti sociali e politici esistono, ricordiamoceli e raccontiamoli per quello che sono nella sostanza. Il fascismo e l’antifascismo sono importanti, e sempre attuali. Ma pensioni, salario, accesso al lavoro e alla salute contano ovviamente di più. E menomale.
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