Partiti e politici
La Repubblica del trolley
Quando rivoluzionò la vita del pianeta con la sua stupidissima invenzione, l’allora pilota della flotta Northwest Airlines, Robert Plath, non poteva immaginare che a distanza di più di venticinque anni le rotelle con la valigia intorno sarebbero diventate il simbolo italiano di una nuova Repubblica: la Repubblica del trolley, condensando così prima, seconda e terza in un unico e peraltro scorrevolissimo sistema di sfangare la vita facendo politica. Questi pensieri mi sono riemersi alla mente con la lettura del «Breviario» di monsignor Ravasi sul Domenicale del Sole 24 Ore, che dedica le sua abituali venti righe proprio a questo argomento. Eccole.
«La politica è forse l’unica professione per la quale non si considera necessaria alcuna preparazione specifica».
Mi sono stupito quando ho scoperto l’autore di questa stoccata sui politici. Pensavo si trattasse di qualche giornalista alla Biagi o alla Montanelli. E invece è nientemeno che Robert L. Stevenson, sì, il creatore del dottor Jekyll e di Mister Hyde e delle avventure dell’Isola del Tesoro. Egli, infatti, fu anche articolista e questa battuta è da cercare nei suoi “Familiar Studies of Men and Books. Come in ogni realtà umana, ci sono le eccezioni che, però, ai nostri giorni stanno diventando sempre più rare. All’incapacità si sposa di solito l’arroganza, tipica virtù (si fa per dire) dell’ignorante. Alla fine, ecco la reazione opposta e altrettanto miserevole del qualunquismo antipolitico. Purtroppo, però, all’origine c’è la verità di Stevenson che un autore spagnolo contemporaneo, Guillermo Puerto. Così sintetizza: “Ingannò senza mentire, cioè fece politica”». Sin qui monsignor Ravasi.
Molti anni fa, rispondendo a un ascoltatore di Prima Pagina su Radio 3 che considerava la classe politica un unico blocco di fannulloni, mi permisi di eccepire, opponendo da una parte lo sforzo meramente fisico-tecnico del parlamentare (lavoro in commissione, lavoro in Aula, ritorno al collegio di appartenenza e rapporto con gli elettori con tutte le incombenze del caso, anche le più distorsive), dall’altra la costruzione di un pensiero politico, sempre in costante evoluzione, che veniva da studi fatti, passioni politiche, storie personali e collettive, senso dello stato, eccetera, eccetera. Rimasi molto colpito, qualche giorno dopo, nel leggere che Beniamino Placido aveva ripreso le mie osservazioni sul Venerdì di Repubblica, condividendole. Ne fui lusingato, Placido era un intellettuale così sottile e di grande ironia, peraltro per una lunga parte della sua buona vita alto funzionario proprio della Camera dei Deputati.
Oggi non darei più quella risposta. Non ne avrei il coraggio. O l’impudenza, scegliete voi. E l’immagine del trolley, evocata all’inizio, è quella più rappresentativa del parlamentare odierno. Quelle rotelle, il rumore sordo che si moltiplica sui sampietrini, invadono il centro Roma nella tarda mattinata di martedì, si placano per l’intero mercoledì, riposando in qualche camera d’albergo sparsa, poi, ri-smerigliate, si preparano sulla griglia di partenza e via!, vorticosamente trascinano valigia e padrone verso la prima stazione utile o il sempre triste Fiumicino. Giovedì – massimo ore 14 – l’evacuazione è compiuta, le Aule sono malinconicamente vuote, le commissioni inoperose, il supremo Job-Act istituzionale a tutele estremamente crescenti, esageratamente crescenti, finalmente approvato a larghissima maggioranza.
Queste striminzitissime 36 ore di lavoro sono in realtà la misura standard della nostra politica. Lo sono state in passato, lo sono ora: perchè mai, dunque, considerare le attuali come immeritevoli, come moralmente discutibili, come politicamente povere?
Sembrerà un paradosso, ma per capire meglio si dovrà introdurre un elemento molto renziano, elevandolo a paradigma delle differenze: la narrazione. Oggi la narrazione di questa politica è “solo” esterna, unicamente esterna, totalmente piegata alle esigenze cinematografiche e di sceneggiatura del governo. Così da mostrare ai cittadini l’aspetto conclusivo, finale, di un lavoro che ha avuto al suo interno scarsissima considerazione per la macerazione politica, per i valori, le storie, i riferimenti culturali, ma che invece si è cibata a piene mani dell’ideologia social, del fare presto anche se magari non bene, della disinvoltura dei rapporti, del rispetto dei tempi. Ecco, quest’ultimo punto – il rispetto dei tempi – ha certamente un sapore binario: da una parte è il vero aspetto che consegnerà Renzi comunque alla grande storia italiana come colui che cercò di cambiare una mentalità completamente incrostata, dall’altra ne segna invariabilmente i limiti, proprio quei limiti dovuti a scadenze troppo obbligate. Il caso del Senato è in questo caso perfetto: per ottemperare alle impellenze tabellari, si è messa in piedi una porcheria davvero epocale, che non ci stancheremo mai di definire «uno sgavazzo bi-settimanale per consiglieri regionali in gita nella Capitale».
Un tempo la narrazione era tutta interna e, per carità, non c’è da rimpiangerne quella infinità fumosità fatta di formule, arzigogoli, convergenze più o meno parallele, preamboli e via di questo passo. Ma le persone sentivano in buona parte una missione. Le vedevi sinceramente appassionate alla politica, convinte che principi, valori e storie costituissero il patrimonio necessario per “fare” politica. Usando un’immagine di questa nostra modernità e rubandola a Berlusconi, a tutte veniva consegnato un “kit del candidato” di un certo livello culturale. Oggi, il giovane politico non ha mai lo sguardo rivolto al passato, a una storia importante, rivolto a certi principi ispiratori, a certi valori. Che non ci sia stata una sollevazione nel Partito Democratico per l’oscena vicenda Kyenge è lo specchio di questi nuovi tempi.
La famiglia renziana, che oggettivamente detiene in maniera larga e ampiamente maggioritaria il pacchetto azionario del Pd, ci dovrebbe convincere delle sue passioni. Convincerci intanto che esistono e poi che sono le passioni condivise di una donna o di un uomo di una sinistra liberale e riformista. Il riformismo vive ancora sui principi e sui valori, valori e principi che per esempio ti fanno anche scendere in piazza a batterti per una causa giusta.
Già, perchè la famiglia renziana non scende mai in piazza?
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