Partiti e politici

La pioggia di simboli in politica e il “meteo” di Gabriele Maestri

25 Agosto 2015

E’ accreditato come il maggior studioso di simboli elettorali in Italia, tanto da essere diventato punto di riferimento per i giornalisti che stazionano al Viminale quando, in occasione delle competizioni elettorali, comincia la corsa al deposito dei simboli che compariranno sulle schede.

Gabriele Maestri (nella foto) ha 32 anni. E’ nato nella Bassa reggiana, a Guastalla, dove  è anche consigliere comunale per il Pd.

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Laureato in Giurisprudenza, è giornalista pubblicista e collabora a varie testate occupandosi di cronaca, politica e musica.
Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l’Università di Roma «La Sapienza», già assegnista di ricerca presso il dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Roma Tre; attualmente è di nuovo dottorando in Studi di genere presso lo stesso dipartimento dell’Università di Roma Tre e collabora con la cattedra di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma.

Si occupa di diritto della radiotelevisione (materia oggetto della tesi di laurea e della tesi di dottorato), educazione alla cittadinanza, biodiritto, diritto dell’immigrazione e dell’integrazione, diritto elettorale e dei partiti, occupandosi in particolare dei loro emblemi.

La sua passione per i simboli elettorali l’ha prima messa nero su bianco su un suo blog , isimbolidelladiscordia.blogspot.it,, ora diventato un sito con oltre 130mila visualizzazioni,  sempre aggiornatissimo, poi pubblicata in un volume per addetti ai lavori con la casa editrice Giuffrè. Dopo ha messo mano a quella che lui chiama la versione “pop” di quel libro, col titolo “Per un pugno di simboli” (Aracne editrice), con la prefazione di Filippo Ceccarelli.

 

L’altra sua grande passione è la musica leggera, di cui è una sorta di enciclopedia vivente: molti suoi colleghi giornalisti lo ricordano in sala stampa a “Italia loves Emilia”, la grande kermesse canora per la raccolta di fondi post-terremoto, perché quando non ricordavano un autore o l’anno di una pubblicazione di una canzone, bastava chiedere a lui.

Gabriele, come è nata questa tua passione per i simboli elettorali?

«Mi porto dietro questo interesse fin da piccolo. Mi sono ammalato presto di “simbolofilia”, a metà degli anni ’80 vedevo i manifesti dei candidati e soprattutto le grafiche televisive delle maratone elettorali: le schede erano ancora in bianco e nero, ma i simboli in tv e sui muri erano coloratissimi, per cui attiravano i miei occhi di bambino. Allora mi ci divertivo, lo prendevo come un gioco “con le cose dei grandi”; quando sono cresciuto ho cercato di capire che mondo ci fosse dietro. A volte ci sono riuscito, altre volte no, talora visto cose che non mi sono piaciute; nonostante tutto, continuo a occuparmi di emblemi politici. Oggi lo faccio da “tecnico”, ma mi diverto ancora».

Hai pubblicato una versione dei tuoi studi che hai definito pop. C’è interesse per questi argomenti anche tra i non addetti ai lavori?

«L’interesse c’è. Non costante, ma c’è. Il fatto stesso che, soprattutto in certi casi, i media decidano di parlare delle vicende e (soprattutto) delle liti simboliche, non è dettato solo dall’esigenza di riempire spazi vuoti sulla carta, in tv o sul web. Più delle implicazioni politiche, ovviamente, fa notizia la lite, la zuffa e tutti gli aspetti che possono essere un po’ grotteschi e un po’ allettanti, insomma “pop”. Per questo, dopo avere illustrato nel primo libro (“I simboli della discordia”) gli aspetti tecnici delle liti simboliche, rivolgendomi soprattutto agli addetti ai lavori, ho sentito il bisogno di raccontare in modo più leggero quelle stesse vicende, ma soprattutto quello che ne era rimasto fuori: un universo di emblemi creati con photoshop o aggiustati con colla e pennarelli, di pugni sferrati a congressi fantasma e di figuri che, un bel giorno, si svegliano con la consapevolezza di essere Il Giustiziere d’Italia o l’ennesima reincarnazione della Dc. Per questo è nato “Per un pugno di simboli”».

Come fai a fare tutto e, soprattutto, ad essere preparato su tutto?

«A volte penso che le giornate di 48 ore mi farebbero comodo, ma temo che riuscirei a saturare anche quelle… Scherzi a parte, cerco di tenere insieme il Gabriele simbolologo, l’archeologo musicale, il costituzionalista, il micropolitico neofita, il giornalista: credo siano tutte facce di una figura complessa. Non tutto riesce al meglio, ma ci sono molte dosi di passioni in ogni cosa fatta: questo è il fondamento o, se non altro, un’attenuante».

Sei mai stato contattato da qualche partito per una consulenza sui simboli?

«In realtà per ora i partiti li ho contattati soprattutto io: nessuno dei due libri sarebbe mai nato senza il contributo di chi, nelle varie formazioni politiche, mi ha fisicamente mostrato documenti e vecchi emblemi, oltre che senza l’aiuto fondamentale del Ministero dell’Interno, insostituibile in questi anni. Alcuni personaggi legati a piccoli partiti, però, mi hanno contattato, magari dopo che avevo scritto di loro: è stata l’occasione per approfondire questioni o correggere errori (purtroppo è facile farne, se mancano notizie di prima mano) e, a volte, per dare qualche microconsulenza in materia simbolica. Spero non siano le ultime».

Hai mai fatto un conto di quanti simboli elettorali siano stati depositati in Italia?

«Bella domanda: stilare un numero è praticamente impossibile. Nel mio libro ho riempito 64 pagine con oltre 770 simboli in bianco e nero e a colori, ma sono solo una piccola parte del totale. E non solo perché bisognerebbe considerare potenzialmente ogni lista civica nata nel comune più sperduto (e con circa 8mila comuni, quanti loghi locali saranno stati partoriti in oltre 60 anni di repubblica?), ma perché l’Italia è il paese della polverizzazione. In cui un simbolo nasce e magari sulle schede manco ci finisce, ma intanto la bandiera la si è piantata. A volte gli emblemi cambiano (un tempo era una tragedia, ora non se ne accorge quasi nessuno), qualcuno vive a lungo e qualcuno tramonta in fretta. Alle elezioni politiche del 1994, per dire, sono stati ammessi 312 contrassegni, anche se non sono stati poi usati tutti. Dovendo azzardare numeri complessivi, a parlare di alcune migliaia probabilmente non si sbaglia».

A chi va il record di simboli depositati?

«I record probabilmente spettano alla Lega e, in second’ordine, ai Verdi e ai Radicali, che tra gli anni ’80 e ’90 hanno depositato spesso vari emblemi insieme a scopo “difensivo”: per evitare cioè che qualcun altro mettesse il cappello su quelle combinazioni testuali o grafiche. Nel 1992, per dire, i leghisti intasarono i tavoli del Viminale con le declinazioni più disparate del termine “Lega” (Meridionale, alpina, appenninica, comunista, democristiana…), tentando così artigianalmente di avere il monopolio della parola “Lega”. Quella volta andò male: il ministero bocciò tutti quei doppioni e, al contrario, ammise tutte quelle formazioni che avevano inserito quella parola nel logo, magari sperando di rubacchiare qualche voto. La partita fu persa, ma l’azione era da antologia».

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