Partiti e politici
La parabola perdente di Renzi. Dialogo con il politologo Paolo Feltrin
“Vedi – mi dice mentre ci sediamo ai tavolini all’aperto del Bar Magenta, in questa calda primavera estiva milanese – c’è stato un momento in cui Renzi poteva davvero cambiare le sorti e la politica di questo paese”. Attendo il seguito con interesse, mentre aspettiamo che il cameriere registri le nostre ordinazioni. Chi mi parla è Paolo Feltrin, politologo e consulente strategico spesso vittorioso di tanti politici, importanti e meno importanti, ma che non ama stare al centro della scena e sotto i riflettori mediatici. Novello Richelieu?
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Ride di gusto al paragone. “Ma no, quale stratega… semplicemente vedo, e racconto, le cose che tutti hanno sotto gli occhi, ma che spesso non riescono a vedere, immersi in qualche sogno personale. Un’iniezione di realismo, con qualche suggerimento appropriato.” Lo riporto al nostro fiorentino, ed al suo momento topico. Torniamo all’ormai lontano 2014, quando Renzi era il politico più amato, trasversalmente, dall’elettorato italiano, forse il più apprezzato di sempre, perché non divisivo, come era invece Berlusconi. Capace di parlare in maniera efficace a tutti, indipendentemente dal colore politico. Un uomo del dialogo, pragmatico, che teneva aperti i ponti levatoi con ogni partito, perfino con i 5 stelle.
“In quell’anno fatidico, gli unici suoi nemici veri erano coloro che lui voleva rottamare, all’interno del PD, oppure la Cgil, o la sinistra più radicale che non concepiva quel modo di comportarsi, così poco di sinistra. Ma gli altri lo seguivano: gran parte degli elettori del Pd, ma anche quelli degli altri partiti, e perfino una significativa quota dei pentastellati. Molti speravano davvero che da lui nascesse qualcosa di nuovo.”
Ma poi, cosa è successo, che cosa non ha più funzionato? Vuoi sapere qual è stato il punto di svolta, mi chiede, l’istante in cui la sua parabola vittoriosa è cominciata a declinare? Mi vengono in mente il jobs act, la buona scuola, Verdini. Si, anche, in parte, risponde, ma non furono quelle le cause prime della sua discesa. “Il momento esatto è stato quando ha deciso di rompere con Berlusconi, scegliendo di candidare Mattarella senza concordare con lui la candidatura, o almeno informarlo preventivamente. Il ponte levatoio si è repentinamente chiuso, e oltretutto senza alcun motivo, senza alcuna visione strategica.”
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Gli domando se a suo parere Renzi fosse stato davvero, fino a quel momento, un abile stratega. Non è chiaro nemmeno a lui se le mosse precedenti del premier fossero davvero pensate, oppure gli venissero così, automaticamente, come un animale politico che sa ciò che deve fare senza magari rifletterci neanche tanto.
Ma in quel momento, mi dice, è venuto meno il suo intuito, o la sua strategia. Riflettiamo: Renzi ha scelto Mattarella, senza l’approvazione di Berlusconi, per riappacificarsi con la sinistra interna, per convincerla che non stava al gioco del Cavaliere, che non aveva bisogno di lui. Ma a che serviva? La sinistra interna ha continuato ad attaccarlo su altri fronti, comunque, e in quel modo ha definitivamente perso l’appoggio implicito del centro-destra, che ha iniziato a fargli la guerra su tutto, in particolare sull’Italicum e sulla riforma costituzionale. I due obiettivi principali di Renzi. Forse pensava di essere sufficientemente forte, ma ha sbagliato a pensarlo. E con Berlusconi tacitamente dalla sua parte, al contrario, le due riforme sarebbero passate magari già in Parlamento, senza bisogno di referendum.
“E’ montata l’onda mediatica contro di lui, da destra, da sinistra e dai 5 stelle. Da quel momento, il premier non si è più ripreso. Dall’elezione di Mattarella alla personalizzazione del referendum, ogni passo è stato un passo errato, che l’ha portato alla sconfitta definitiva, senza appello.” E dopo il fatidico 4 dicembre, cosa avrebbe dovuto fare? Semplice, mi risponde. Ogni politico sconfitto deve ritirarsi, almeno per un po’, farsi da parte.
“Come Cincinnato, si parva licet, doveva saltare un giro, rimanere nell’ombra, aspettando il momento migliore per tornare, se l’avessero chiamato di nuovo perché non si trovavano altre soluzioni. Farsi desiderare per qualche anno, visto che in Italia uomini politici con il suo fiuto, almeno inizialmente, non sembra ce ne siano. Uscire dall’arena politica per un paio di mesi, come ha fatto lui, serve a poco. Non è sufficiente per far dimenticare gli smacchi subiti. Ed è molto difficile, ora, tornare in sella.”
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Mentre ci congediamo, mi chiedo se Renzi ascolterebbe mai il consiglio di Paolo Feltrin. No, non penso. Non è Cincinnato.
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