Partiti e politici
La modernità di Renzi non può vivere solo sui disastri del comunismo
Nel passaggio epocale da una sinistra a un’altra, da una sinistra post-comunista (o ancora un po’ comunista?) a una sinistra che, secondo molti, sarebbe anche un po’ di destra o destra tout court, c’è una considerazione centrale che racchiude tutte le insofferenze della nuova sinistra renziana rispetto a quella vecchia e la esprime Graziano Del Rio, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, in un’intervista a Repubblica: «Avete un problema con la modernità». Ora, visto che non stiamo parlando di Tim Cook che in conference-call planetaria annuncia l’iPhone 17, ma di un onest’uomo che nel ’99, con la tessera del Partito popolare in tasca, entrò per la prima volta in Consiglio comunale a Reggio Emilia e che da quel momento è rimasto incollato al cadreghino politico, sarà il caso di trovare un giusto punto di interpretazione della parola «modernità». Naturalmente le parole di Del Rio sono arrivate a poche ore dall’approvazione del Jobs Act, quando una pioggia acida di critiche si era abbattuta sul governo per non avere ascoltato il Parlamento, riassunte nell’espressione della presidente della Camera, Boldrini, che per l’occasione ha abbandonato la terzietà istituzionale: «L’idea di avere un uomo solo al potere, contro tutti e in barba a tutto a me non piace, non mi piace».
Giusto per dirvi della modernità di Graziano Del Rio. Quando su Repubblica il bravo Goffredo De Marchis lo punzecchia sull’attitudine anche renziana a organizzarsi in correnti all’interno del Pd, il sottosegretario va per simboli come Chance il Giardiniere: «Con Matteo abbiamo sempre avuto un’idea molto ampia del partito, come di un campo largo (in “Oltre il Giardino”, Chance evoca esattamente i frutti della terra come parabola politica), mai organizzato in settori o in correnti come quelle che si sono sempre conosciute… Si possono creare non aree di potere ma di pensiero. Luoghi dove la società e i parlamentari riflettono sulle sfide della modernità possono invece avere un ruolo». De Marchis non resiste e obietta: “Se non è zuppa è pan bagnato”, e qui Del Rio si sublima totalmente in Chance: «Non è così – replica – io penso a iniziative leggere, aperte, in cui mai l’appartenenza deve sostituirsi al pensiero».
Questa intervista, questi passaggi, sono davvero rivelatori e definiscono in modo millimetrico qual è la modernità secondo Renzi e i suoi più stretti collaboratori (pensate che Del Rio lo ha memorizzato come «Mosè» sul telefonino, sempre fonte De Marchis). Una modernità che non vive per nulla sulla freschezza della società che si evolve in continuazione, tramite il progresso scientifico, della tecnologia, di tutte le arti – una modernità dunque pienamente liberale – ma che ne definisce il peso e la consistenza attraverso la vecchiezza politica degli avversari politici, in questo caso la sinistra del Pd, la Fiom e Camusso, insomma tutti quei simboli mesozoici che intenderebbero porsi di traverso alla baldanza e alla sicumera del presidente del Consiglio. Una modernità sostanzialmente siliconata, che non esisterebbe se non esistessero i “nemici” e che dunque non vive su un riscontro diretto all’interno della società più sviluppata.
È come se lo sguardo di Matteo Renzi fosse rivolto per una buona metà al passato e forse anche qualcosa in più, in modo che il continuo e asfissiante richiamo a quel passato, certamente non brillantissimo in termini di modernità, possa produrre il risultato di far apparire il suo “nuovo” ancora più nuovo, offrendo all’esterno l’immagine di distanze molto, molto, consistenti da una storia francamente non più riproponibile. Un’operazione certamente suggestiva e forse anche intelligente, ma destinata a esaurirsi in un tempo non lunghissimo.
Ciò che il premier sembra dimenticare è che là fuori ci sono anche quelli di sinistra, e sono moltissimi, che non voterebbero mai neppure sotto tortura Nichi Vendola (meno che mai dopo l’oscena telefonata con l’uomo delle relazioni oscure di Ilva), che non si sognerebbero neanche in un momento di estrema malinconia depressiva di mettere la “X” su una ipotetica formazione che avesse come leader Maurizio Landini (il quale ha smentito senza troppa convinzione di mettere il sedere sul cadreghino anche lui), che mai nella vita appoggerebbero un partito con alla testa due simpatici piantacasini come Cuperlo e Civati, e che hanno fatto pace con l’idea ormai passata alla storia che Massimo D’Alema, pur nella sua raffinatezza politica, è stato un’autentica sciagura per la sinistra italiana.
Tutta questa gente, chiamiamola liberale, chiamiamola riformista, chiamiamola – appunto – moderna, vorrebbe sentirsi rappresentata da una politica di altissimo profilo ma di altrettanta chiara matrice di sinistra, una politica che riesca nell’impresa titanica di coniugare solidarietà e mercato. Qui invece si fa ancora molto, troppo, mercato.
Nella foto di copertina, Graziano Del Rio alla Leopolda 2014, foto scattata da Francesco Pietrantoni, CC, tratta da Flickr
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