Partiti e politici
La lezione di Corbyn agli anti-renziani? Le battaglie si vincono dall’interno
Nessuno nella minoranza Pd ha davvero sventolato la bandiera per la vittoria di Jeremy Corbyn nelle primarie del Labour. La soddisfazione è stata contenuta, anche perché il nuovo leader laburista è un bel po’ a sinistra. Per tracciare un parallelo con l’Italia, le sue posizioni sono più vicine a uno Stefano Fassina, da poco fuoriuscito dal Partito democratico, che a un Pier Luigi Bersani. Ma è innegabile che tra gli oppositori interni del segretario Matteo Renzi ci sia qualche sghignazzo per la sconfitta del blairismo che, seppure allungato in salsa fiorentina, somiglia al renzismo.
Peraltro dalla Gran Bretagna arriva più una lezione che una buona notizia per gli anti-renziani. Le battaglie si combattono – ed eventualmente si vincono – dall’interno, senza cercare fughe in avanti o scorciatoie. Jeremy Corbyn è sempre rimasto nel ‘suo’ partito, votando contro la linea ufficiale in 533 occasioni, secondo quanto riferisce l’Internazionale. Per sua ammissione il deputato si è sentito “frustrato” negli anni della Terza Via blairiana. E non ci si meraviglia affatto: basti pensare che un pacifista convinto, che vuole un drastico taglio alla spesa militare, era (ed è) nello stesso partito di Tony Blair, il premier che ha appoggiato le guerre di George W. Bush. Eppure Jeremy Corbyn non è mai arretrato: ha conservato il proprio seggio elezione dopo elezione, nonostante il ruolo di esponente di secondo piano, aspettando il momento giusto per la candidatura alla leadership. E quando si è presentata l’occasione, si è lanciato nella contesa elettorale per rinvigorire il Labour dopo la pallida era Miliband. Così è arrivata la sua chance.
A vedere in profondità la lezione, emerge un quadro chiaro: la costruzione di un grande partito, a vocazione maggioritaria (per usare un’espressione cara a Veltroni), passa attraverso la pazienza della coltivazione dialettica che può tramutarsi talvolta in duro scontro. E molto spesso possono diventare ‘schiaffi’ politici, come quelli che Blair ha rifilato alla minoranza interna dell’epoca. Che d’altra parte non è mai scivolata nella tentazione della fuga, che in Gran Bretagna vuol dire sostanzialmente il ritiro dalla politica ma che in Italia prende la forma della scissione. Con un effetto a catena: il conseguente ampliamento dell’offerta politica (che di per sé non è un male ma portato all’estimo lo diventa), la dispersione dei voti nell’area progressista. E soprattutto la sensazione di confermare un’antica convinzione: la sinistra incapace di stare unita.
I non renziani del Pd devono così prendere nota di questo aspetto invece di gongolare per un risultato che – al di là delle osservazioni generali – comunque attiene a questioni nazionali. Il messaggio anti-frammentazione che giunge da Londra non può essere celato dagli sberleffi della disfatta blairiana e dal ritorno sulla scena di una sinistra-sinistra. La declinazione di questo concetto per l’ex Ditta di Bersani non è affatto piacevole: vuol dire che nei prossimi mesi, anzi anni, occorre ingoiare medicine amare fino a quando la maggioranza sarà sotto il controllo dell’ex Rottamatore. Nell’attesa che, eventualmente, la situazione si capovolga.
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