Partiti e politici
La fine del sindacato di territorio
Ora che le liste elettorali sono state composte e depositate per un mese possiamo legittimamente esprimere ciò che realmente pensiamo dei nostri connazionali che hanno idee e convincimenti diversi dai nostri, dei nostri vicini di casa, dei nostri colleghi di lavoro, in pratica tutti escluso il cane. Non prima di aver notato che le pagine dei giornali, da nord a sud, si sono riempite di polemiche degli esclusi e dei disperati lai di ‘territori’ e ‘comunità locali’ abbandonate, prive di rappresentanza politica là dove conta esserci perché si prendono parte delle decisioni che influiscono sulla vita di istituzioni, cittadini e imprese, cioè Roma e il tanto vituperato Parlamento. Noto con disappunto, ormai non più con stupore, che si tratta dei medesimi soggetti che il 20 e il 21 settembre 2020 si sono premurati di depositare nelle urne l’approvazione della riforma Costituzionale con cui il numero complessivo di parlamentari è stato diminuito da 945 a 600, passata con il 69,96 per cento dei consensi sostenuti a loro volta da una robusta affluenza del 51,12 per cento. Un epilogo degno di Matteo Richetti con il quale ricordo un’accesa discussione al circolo del PD di Bruxelles. All’epoca, verso la fine del 2017, era acceso sostenitore non solo del taglio ma anche della riduzione dello ‘stipendio’ dei parlamentari e la cancellazione del ‘vitalizio’, con legge che prese il suo stesso nome. Di recente, Richetti è approdato ad Azione per sfuggire, pare, al populismo del Pd che lui stesso aveva contribuito ad alimentare. Ma l’intento qui non è polemico.
La citata riforma combinata con la legge elettorale ha avuto come effetto una riduzione del peso dei territori, intesi anche come apparati locali dei partiti, oltre che come sistemi sociali, economici ed istituzionali più o meno omogenei, a favore delle segreterie nazionali, dei leader e inevitabilmente delle correnti interne ai partiti. Si è verificato, quindi, un accentramento delle decisioni con perdita di potere e influenza da parte delle ‘costituency’. Per ora nella scelta di chi andrà a comporre la XIX legislatura, in futuro, ed è quello che temono sistemi e poteri locali, anche in scelte di grande rilievo in ambito economico, infrastrutturale e sociale. L’accaduto, ben descritto da Paolo Natale in due recenti articoli (qui e qui), rischia di aumentare la frattura tra centro e periferia che da quasi tre decenni i legislatori e i politici di tutti i colori avevano non solo promesso ma persino tentato di colmare, anche se in modo alquanto sgangherato.
Forse vale la pena soffermarsi sulle conseguenze prodotte da questo cambio di paradigma. Perché le proteste sui giornali generate da frustrazione e impotenza passano velocemente, mentre immagino che non solo non si tornerà al numero pletorico di parlamentari precedente entro breve tempo, ma le dinamiche innescate con la centralizzazione dei poteri decisionali potrebbero essere il nostro orizzonte politico dei prossimi due o tre decenni.
I territori conteranno meno. Forse è vero, non possiamo predirlo con certezza. Certo conteranno meno le dinamiche locali isolate dal contesto nazionale che, a sua volta non può prescindere dal contesto europeo. La regolare maionese impazzita dei sindaci, esponenti locali o regionali in forte disaccordo con il proprio partito in un Paese come l’Italia dove tutti litigano con tutti e se non c’è nessuno con cui baruffare lo si cerca sui social, è diventata ingestibile persino per i partiti. Per tre decenni siamo andati verso il regionalismo, abbiamo esaltato le ‘eccellenze locali’ e sospinto il campanilismo estremo, salvo poi scoprire che le classi dirigenti e le élite locali non sono migliori di quelle nazionali, sono solo più piccole, ma ugualmente agguerrite, feroci e autoreferenziali. Con l’aggravante che oltre agli avversari in loco, percepiscono come tali anche i livelli superiori dei rispettivi partiti e trasmettono tale idea all’opinione pubblica diventando campioni del ‘dissenso interno’. Il risultato è chiaramente l’impossibilità di costruire progetti politici coerenti e, non dico omogenei, ma neppure minimamente uniformi. Nel momento in cui i processi decisionali prendono la via inversa, cioè le linee politiche di un partito si formano a livello nazionale e non sono la mera composizione di interessi, apparati e notabilato locale, forse le élite territoriali avranno un peso inferiore.
I primi scossoni li ho visti in Veneto, la regione in cui abito e lavoro. Il 26 agosto il Corriere del Veneto ha celebrato il funerale politico di Zaia. Marco Bonet, nel suo pezzo, ricorda che il presidente della Regione non ha speso una parola per raccomandare alcuno dei suoi fedeli nelle liste per la composizione del Parlamento. In definitiva, Zaia non ha toccato palla un po’ per la sua natura di non sporcarsi le mani per altri al di fuori di sé, un po’, probabilmente perché sapeva come sarebbe andata a finire. Visto che non si può candidare nuovamente a presidente della Regione, se la Lega resta in mano a Salvini e alla sua banda, con il 76 per cento dei consensi in Veneto nel 2025 Zaia ci può incartare il pesce. Nel frattempo le seconde e terze file, quelli che costituiscono l’ossatura del suo sistema di potere regionale, sono prevedibilmente in uscita alla ricerca di una sviluppa di salvataggio che consenta loro di proseguire l’attività politica oltre quella data.
C’è per contro, anche la possibilità virtuosa che questa nuova configurazione esalti la capacità di intermediazione politica dei singoli esponenti. Se cioè il sindaco, il consigliere regionale o il parlamentare è fortemente collegato con il suo partito può rappresentare istanze del suo territorio, ma conteranno moltissimo le capacità di trasmettere, tradurre e rendere appetibili al proprio elettorato le proposte politiche nazionali elaborate dal partito. In ogni caso, nei prossimi anni i partiti conteranno di più rispetto al passato e chi vuole fare politica anche a livello locale è bene si attrezzi a scalare il cursus honorum e a contare molto all’interno delle formazioni politiche. I lupi solitari civici saranno accettati nella misura in cui depositari di risorse in termini di consenso, di capitale sociale o economico. È il caso, sempre veneto, di Carlo Nordio un liberale garantista, candidato con FDI, partito ‘manettaro’ – sottolinea il politologo Paolo Feltrin. Un’ottima operazione che potrebbe concludere la transizione dall’Msi, afferma Feltrin che ricorda come candidature dello stesso stampo venivano proposte dal PCI di Berlinguer negli anni Settanta e rappresentavano un’apertura verso la società civile che il partito da solo non garantiva. Ma ora come allora, decisioni di questo genere vengono prese dalle segreterie centrali dei partiti saltando a pie’ pari i territori, proprio perché rispondono a logiche più ampie e a strategie che traguardano il singolo collegio o la singola regione. In un’Europa in cui gli stati membri avranno agibilità politica sempre più ridotta e saranno sostanzialmente delle regioni, credo che questo processo di semplificazione interna sia inevitabile e infatti attraversa tutti i partiti.
A quanti gridano scandalizzati al tradimento della democrazia mi permetto di far notare alcune cose. Qualsiasi manuale di scienza politica alla voce partiti indica tra le loro funzioni il reclutamento dei governanti, ovvero la selezione della classe dirigente. In tutte le democrazie, con pochissime eccezioni, le liste elettorali sono presentate dai partiti e composte da loro appartenenti e, nella stragrande maggioranza delle democrazie i governi sono formati da membri dei partiti o da loro rappresentanti.
La composizione delle liste elettorali è da sempre, un regolamento di conti interno. Questo atteggiamento potrebbe essere attenuato con il ritorno al sistema proporzionale puro, dove ogni partito ha bisogno di raggiungere qualsiasi voto in più, anche esterno, pur di prevalere. Se invece contano le alleanze e la disciplina interna, il risultato è, non da oggi, quello che vediamo.
Le preferenze, spesso evocate come panacea per contrastare la disaffezione dei cittadini verso la politica e un maggior collegamento con il territorio sono un’arma a doppio taglio. Negli anni Settanta e Ottanta per chi votava a sinistra le preferenze erano l’anticamera della corruzione e dei sistemi clientelari. Perché è innegabile che nelle città e nelle province dove lo stato è più debole, attraverso il voto la criminalità organizzata riesce a occupare le istituzioni e il sistema delle preferenze consente un controllo del voto molto capillare. Anche escludendo comportamenti palesemente illeciti, a livello locale le preferenze sono un vantaggio indubbio per chi detiene forme di potere o controllo del territorio.
Altri sostengono che i collegi uninominali siano da preferire ai collegi plurinominali con listino bloccato. Vero che l’elettore nel primo caso può scegliere a quale dei candidati dare la propria preferenza, tuttavia ricordo che da quando votiamo con forme più o meno pure di maggioritario, cioè dall’inizio degli anni Novanta, anche i candidati ai collegi uninominali sono selezionati dai partiti. Qui però ce n’è uno solo e se quel candidato non mi piace o non mi soddisfa pienamente pur essendo della mia area politica, l’unica alternativa che ho è di non votare.
Dopo 30 anni forse assisteremo al declino dei partiti regionalisti, quasi certamente sarà la fine dei partiti intesi come sindacato del territorio. Non ho speranze che diminuisca il tribalismo mediatico, specie sotto elezioni (per quello bisognerebbe provare il sistema elettorale australiano), ma magari la frammentazione interna sì.
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