Partiti e politici
La disfatta delle figurine di Renzi
E meno male che doveva essere 6-1; con il sogno iniziale di poter conquistare addirittura un 7-0, cappotto che avrebbe distrutto definitivamente un agonizzante centrodestra che, dopo queste elezioni regionali, si ritrova invece con un po’ di ossigeno in più. È finita 5-2, ed è pure andata bene al Pd e a Matteo Renzi, visto che a un certo punto è sembrato che pure l’Umbria (!) fosse a rischio.
La vittoria è solo nel risultato numerico, che se fosse calcistico darebbe spazio a pochi dubbi. Ma la politica è cosa ben diversa, e quindi non si può affermare altro che quella a cui abbiamo assistito nella notte è la sconfitta di Renzi, pura e semplice. Il Pd ha vinto dove non poteva che vincere (Puglia, Marche, Toscana, Umbria), è riuscito a strappare la Campania grazie a un candidato che di renziano non ha assolutamente nulla (De Luca), ha perso dove ha puntato sulle espressioni più fedeli del renzismo (in Liguria con Paita, in Veneto con Moretti).
Ecco, vale la pena di guardare un secondo a questi due risultati, perché qui c’è tutto l’aspetto deteriore del renzismo e soprattutto la conferma che un certo rispetto per gli elettori è necessario e non si può pensare che basti portare appiccicata su di sé l’etichetta, il brand “Renzi” per arrivare alla vittoria. In Liguria, regione, diciamo così, “semi-rossa”, il governatore sarà Giovanni Toti. Uomo che non ha nessuna esperienza nel campo dell’amministrazione della cosa pubblica, i cui legami con la Liguria si perdono nella nebbia dei tempi, che rappresenta l’espressione più diretta di un berlusconismo in declino irreversibile.
Eppure ha vinto. Cosa che sembrava impossibile, se non fosse che dall’altra parte c’era Raffaella Paita, eletta alle primarie con i metodi che sappiamo e provocando le spaccature che abbiamo visto. Si può incolpare la “sinistra-sinistra” per aver boicottato la candidatura di Paita? No. Bisogna incolpare Renzi per aver proposto una candidatura che non poteva che essere mal digerita dalla base del Partito Democratico. Che infatti, invece di digerirla, l’ha rigettata.
Si passa poi ad Alessandra Moretti. Ex bersaniana, poi cuperliana, ora renziana, domani chissà. Nessuno si aspettava seriamente che vincesse in Veneto, terra in cui il governatore appena rieletto aveva ben poco da temere e in cui si può legittimamente parlare di “modello Zaia”; ma certo venire doppiata in questo modo rappresenta una batosta impressionante. 50,4% per Zaia, 22,8% per Moretti. In questi numeri c’è la rappresentazione evidente, implacabile, di un fallimento completo. Il fallimento della candidatura, imposta con primarie al fulmicotone, di una giovane politica che è stata deputata nel 2013, europarlamentare nel 2014, e che sperava di diventare governatore nel 2015. Che serietà c’è in chi salta da una carica all’altra a ogni cambio di calendario?
Paita ha perso contro Toti, non c’è bisogno di aggiungere altro per quantificare la gravità della disfatta. Moretti ha preso quasi 30 punti da Zaia, e in questo caso i numeri parlano da soli.
Basta aggiungere che dove invece il Partito Democratico ha vinto, i candidati con Renzi e col renzismo non avevano nulla a che vedere. Vincenzo De Luca ha dimostrato, una volta di più, di avere una sua base elettorale che lo segue fedelmente, chi sia il segretario del Pd poco importa. Idem dicasi per Michele Emiliano. In Toscana, Enrico Rossi viaggia sulle sue gambe. Catiuscia Marini e Luca Ceriscioli hanno vinto le primarie da anti-renziani.
Le due uniche espressioni di Renzi, insomma, erano Moretti e Paita. Due candidate che hanno preso una batosta di proporzioni epiche.
Forse, in tutto questo, va ricercata una ragione profonda. E cioè che chi, alle primarie e alle Europee, ha votato Renzi, l’ha fatto nella speranza che rinnovasse una classe dirigente, con persone nuove, giovani e capaci. Se invece si disseminano lungo le regioni italiane candidati più o meno inutili nella convinzione (parecchio egocentrica) che basti portare impresso il marchio “Renzi” per poter vincere, ecco che quello stesso elettorato si rivolta.
Se il renzismo parte da Roberto Giachetti, Matteo Richetti o Debora Serracchiani per arrivare a Raffaella Paita o Alessandra Moretti, sono cose che possono (pardon, devono) succedere.
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