Partiti e politici
La destra è tornata suo malgrado (aspettava Renzi che ha tradito)
Si sente dire in queste ore: la destra è tornata. Sorprendentemente. Forse non se n’era mai andata, stava lì in attesa della sua occasione. Per mostrarsi. Farsi bella. Far finta di essere sana. Stava lì, in controluce, delusa da Matteo Renzi che ha molto promesso alla destra, ma poi non ha mantenuto. Lo disse esplicitamente nel suo discorso della corona: “Se con i nostri voti abbiamo non vinto, per vincere davvero i voti li andiamo a cercare di là”. E tutti contenti, sulle prime, d’essere cercati quelli di destra, al punto che le Europee volarono come sappiamo. Poi più nulla. E non che la destra si sia nel frattempo riorganizzata, no. È che si mettono insieme gli elettori, quando una buona legge elettorale lo consente.
C’è un evidente paradosso a sinistra, e proprio all’interno del più grande partito della sinistra, il Partito Democratico. Oltre a Matteo Renzi la cui sincera radice di sinistra viene aspramente contestata, c’è un’altra personalità che ha sfruttato molto abilmente la bandiera del Pd da una posizione di destra. Ed è Beppe Sala, un manager liberale, sinceramente votato a un’economia di mercato per tutta una vita e poi un bel giorno trasformato nel “caro, vecchio, compagno Beppe”. Qui a Stati Generali ci abbiamo scherzato in tempi non sospetti su questa vocazione improvvisa, consapevoli che comunque fosse la scelta migliore in luogo del funzionariato spinto del Pd (tipo Fiano, per capirci) che avrebbe certamente preso due sberle da Parisi.
Ma la domanda che oggi si impone, oggi che “la destra è tornata”, è la seguente: come mai Beppe Sala è stato digerito perfettamente dal corpaccione sinistro, mostrandosi persino convincente nella tecnicalità di sinistra, suoni e parole, quelli che generalmente attribuiamo a chi la sinistra l’ha veramente vissuta, mentre questa operazione non è minimamente riuscita a Matteo Renzi, che invece ne avrebbe avuto gli strumenti più adatti: un’autentica passione politica, il passato etico-solidale da giovane marmotta, il paese, gli amici del paese, La Pira, una storia sostanzialmente dal basso e bla, bla, bla?
Non vi è dubbio che per recuperare il gap Beppe Sala abbia lavorato sottotraccia sui simboli, sulle parole d’ordine, su un certo modo di pensare, avrà persino preso lezioni private e sarebbe bello scoprire chi sono stati i suoi tutor. In un momento di sanissima autoironia potrebbe rivelarlo lui stesso. Ci potrebbe dire i libri che gli sono stati imposti, le notti passate in bianco, le simulazioni televisive e tanto altro. Perché il lavoro svolto è stato di buonissimo livello, se ancora qualche settimana fa il sindaco di Milano muoveva l’orgoglio cittadino (della parte sinistra ovviamente) sfanculando sostanzialmente l’osceno blitz di Minniti alla Stazione Centrale. Una roba alla Pisapia e forse anche di più (nella foga trasformista, è possibile che Beppone sia andato anche un attimo oltre le intenzioni). Ma insomma, alla fin della fiera gli elettori del Pd a Milano non possono poi tanto lamentarsi di avere un destro a Palazzo Marino. Probabilmente non ci pensano neppure più. Significa che Beppe Sala ha fatto i conti con i simboli della storia, ne ha avuto il sacro rispetto che meritano, non ci ha scherzato troppo e su quei binari, arricchiti dalla sua modernità, evidentemente si sta muovendo.
Al segretario del Partito Democratico questa operazione non è riuscita. La resa finale è fallimentare, Renzi viene percepito come un destro, nella migliore delle ipotesi come un democristiano di destra. La differenza con Sala è abissale ed è necessario tornare al punto di partenza della loro straordinaria avventura. Mentre il sindaco di Milano, molto consapevole del suo deficit politico, si è applicato alla storia della sinistra, cercando quelle parole d’ordine che potevano innervare un programma per la città, Renzi ha proceduto come un salmone, sfidando la corrente contraria, e dichiarando subito che avrebbe puntato ai voti dei suoi (teorici) avversari. Il che, se matematicamente non farebbe un plisset, ha fatto sbandare tutto un mondo con i suoi riferimenti, le storie personali, i sentimenti che ancora hanno un peso. Ma al coraggio dichiarato di prendere i voti “cattivi” non sono succedute le azioni conseguenti, se non sul brevissimo periodo. Matteo Renzi ha perso l’impudenza sin troppo presto, impaurito dalle faide interne, sfibrato dalla lotta dei suoi stessi compagni. Il suo ragionamento era stato sin troppo chiaro: perderò un tot di voti di qui, ma li recupererò ampiamente di là. Gettando ponti, sollecitazioni, suggestioni. Un bilancino mirato. Non aveva fatto i conti con le grandi storie, che spesso ingabbiano, cristallizzando i cambiamenti. Non aveva fatto i conti con le umanità dolenti di un intero popolo, che toccano le fibre più profonde di ogni segretario. Se è possibile si è intenerito, ha perso quel cinismo lucido dei primi giorni. Non è più stato nulla, troppo tardi per tornare di sinistra, ma anche per essere apprezzato dalla destra.
Se la destra dunque “è tornata”, la colpa (o il merito) è soprattutto di Matteo Renzi che aveva illuso i nipotini del Cavaliere, promettendo una continuità che non è riuscito a garantire.
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