Partiti e politici

La destra al potere: semplice “lottizzazione” o “egemonia culturale”?

22 Aprile 2024

Lottizzazione o “Egemonia culturale”? A cosa punta la destra al potere? Riprendiamo il concetto di egemonia in Gramsci.
A cosa tende esattamente il tema dell’egemonia culturale agitato fin dai primi momenti dalle destre che hanno preso il potere istituzionale? Esse puntano a   contendere alle sinistre sconfitte  anche il cosiddetto «soft power» della cultura  per consolidare il consenso, oppure intendono ridefinire con questa formula  il proprio perimetro culturale e procedere a una risemantizzazione (che vada al di là del termine nazione  ripetuto a ritmo di rap dalla Premier) del proprio apparato ideologico troppo legato all’alone postfascista? È solo un mezzo o ha in sé un fine, un progetto più generale, di pensiero, per riplasmare la società e la cultura?

La domanda può anche essere formulata in altro modo. Il termine e concetto di egemonia costantemente brandito anche dalla destra, è un  falso scopo  di ragionamenti alti e di allusioni a un pensatoure del campo ideologico opposto, Gramsci, per nascondere  semplicemente la volontà di conquista di casematte in cui gli egemoni di prima  lo hanno finora esercitato, e cioè innanzitutto occupare la RAI quale formidabile infrastruttura dove piazzare uomini fidati e, a seguire, i posti nel sottogoverno ministeriale, nelle aziende pubbliche o parapubbliche, nelle direzioni dei musei, negli istituti culturali all’estero, nelle sovrintendenze ai beni artistici, nelle fiere del libro ecc., …. o c’è  invece un progetto più sottile di conquista e mantenimento del potere come il concetto di egemonia ha nella originaria formulazione gramsciana?

E per quale ragione il termine  molto più complesso di egemonia, in quella formulazione, viene connotato dalla  destra meloniana  dal solo aggettivo esplicativo culturale? nella presupposizione, certo non infondata e  necessaria, ma non sufficiente, che chi controlla i presìdi culturali controlla le menti, e dunque il consenso politico-elettorale?

In verità, dalle prime mosse viste in questo anno e mezzo, probabilmente si tratta di un gigantesco rubamazzetto, ossia della semplice sottrazione agli avversari di un buon numero di poltrone da costoro occupate in passato (anche in maniera sfrontata e in contrasto ai propri ideali di eguaglianza o di semplice «pari opportunità»), in una interpretazione tutta casereccia dello spoils system anglosassone, fatto che ha avuto già le sue prime evidenze con le acquisizioni a favore della compagine governativa del MAXXI di Roma affidato al guizzante e colto Alessandro Giuli e della Biennale di Venezia, assegnata alla presidenza di Pietrangelo  Buttafuoco.

Sembrerebbe di trovarci pertanto  nell’ambito di una contro-lottizzazione più che di un probabile turn around con il quale cambiare termini e modi di una nuova forma mentis collettiva più consona non più ai voltaggi mentali dei vincitori ma a un cambio di paradigma che rompa gli steccati e chiuda per sempre col Novecento.
La semplice lottizzazione non necessita di evocare chissà quali scenari intellettuali, infatti. Si fa, e poi  la «si difende» nei talk televisivi dicendo che quella che facciamo noi si chiama erotismo e quella che fanno gli altri pornografia. (Ciò vale, ça va sans dire, anche per quelli che hanno gestito l’apparato televisivo nelle casematte del terzo canale fino all’arrivo della destra più pronunciata, quella meloniana, nella stanza dei bottoni televisivi che già con Edoardo Sylos Labini, non certo uomo di sinistra, ma vera e propria quinta colonna, ha cominciato a innalzare, non senza un certo equilibrio, nel santuario televisivo della sinistra, i santini ritenuti propri: Guareschi, Marinetti, Mazzini ecc.).

La lottizzazione, ricordo, fu il termine coniato ai tempi della riforma Rai del 1975 dal compianto Alberto Ronchey, ed ebbe il consenso della maggior forza di opposizione,  il PCI, visto che con la creazione della terza rete nel 1979 si concesse  l’ingresso nella televisione pubblica – fino a quel momento saldamente in mano a democristiani e socialisti – anche ai comunisti  (che vi piazzarono tutta o quasi la redazione di “Paese Sera” e “Unità”).  Ciò fu possibile innanzitutto «privatizzando» di fatto la RAI, che da Ente Pubblico fu trasformata giuridicamente in SpA, transitando quindi dal diritto amministrativo sotto il dominio del diritto privato e avendo per effetto diretto anche se non immediato l’abolizione del concorso pubblico fino a quel momento necessario per entrare negli organici statali e parastatali. Ciò rese la lottizzazione più sfrontata e libera da riserve e pudori rendendo giuridicamente possibile e alla luce del sole le chiamate dei propri quadri,  intuitu personae, fino a quel momento avvenute in maniera finta e dissimulata, dietro le quinte. Enrico Vaime, sornione ed elegante programmista RAI dell’epoca precedente, ricordava a tal proposito: «Sono entrato in Rai tanti anni fa, con un concorso pubblico. Entrarono con me Liliana Cavani, Giuliana Berlinguer, Francesca Sanvitale, Carlo Fuscagni, Giovanni Mariotti, Leardo Castellani. A quel punto hanno capito che era rischioso e non ne hanno fatti più». (“Corriere della Sera”, 21 marzo 2021). Pertanto se si volesse davvero combattere la lottizzazione, il ripristino dei concorsi pubblici per l’accesso in Rai, che il regime giuridico privatistico consente di eludere ma non proibisce di indirli (restando dopotutto pubblico il capitale costitutivo della SpA Rai), potrebbe essere un segnale di moralizzazione dell’ambiente e di autentica svolta, o comunque un tentativo di risolvere alla radice, selezionando meritocraticamente, almeno l’apparato dei tecnici e degli intellettuali, giornalisti e programmisti. Ciò che avrebbe dovuto fare la sinistra comunista nel 1979! Ma è pura utopia mi rendo conto che ciò accada oggi. E tuttavia…

Ma poniamo, riprendendo il quesito iniziale, che non si tratti di semplice lottizzazione, che invece ci sia  qualcosa di più nella visione delle destre attuali, e soprattutto di quella largamente maggioritaria del partito della Premier (“Forza Italia” essendo troppo legata secondo la formula di Massimiliano Panarari alla egemonia sottoculturale del non meno redditizio, sotto il profilo dei consensi, pop televisivo), ossia una piattaforma ragionata di allargamento della propria base culturale e della propria costituency  ideologica da offrire sulla falsariga proprio del pensiero di Gramsci ai propri «intellettuali organici» per una nuova strategia egemonica. Ebbene, se così  fosse  occorrerebbe a mio avviso, per puro scrupolo di indagine «vedere il piatto» al fine di appurare se c’è qualche segnale, di cui non saprei definire esattamente il grado di sincerità o di strumentale doppiezza,  nell’impianto della nuova «narrazione» oppure come per il discorso  sullo strombazzato «merito» –  fino ad ora posto semplicemente in maniera  nominalistica -, c’è solo una etichetta vuota.

Per esempio il  fatto che il concetto di egemonia sia stato formulato da Gramsci ha portato il Ministro della Cultura  Sangiuliano ad attenzionare la figura del pensatore sardo, non ultimo manifestando  nel gennaio scorso alla direzione della clinica “Quisisana” di Roma, dove il leader comunista s’è spento nel 1937, l’intenzione di apporvi una targa commemorativa. Ciò non deve sorprendere. Sembrerebbe in corso all’interno della cultura di destra un desiderio di intraprendere percorsi nuovi al di là dei consumati e invecchiati nomi di Papini, Prezzolini, Tolkien (a cui hanno «già dato» con la prima e subitanea mostra allestita alla GAM), un proposito, non ancora ben definito ma già avviato, sembra, di ricostruire una nuova genealogia, un nuovo Pantheon con i nomi p.e. di Giambattista Vico o Cesare Pavese (ciò soprattutto ad opera dell’intellettuale di punta Marcello Veneziani), di mettere in sordina  le parole-talismano con le maiuscole della propria tradizione culturale  d’antan di Mito, Sacro,Tradizione, Origine, Razza, Misticismo, Esoterismo, Culto dell’Eroe, Evola, i Templari, i Cavalieri Teutonici, il Medioevo ma anche la «smania del campeggio sportivo» come la chiamava Furio Jesi nel suo famoso (spero) saggio sulla cultura di destra.
Anche perché appare evidente in queste prospezioni nuove che questa destra sia giunta al potere con un armamentario ideologico (sovranismo, antiimmigrazionismo, atlantismo debole, ecc.) buono nel momento dell’ascesa ma non totalmente spendibile nella fase concreta del governo che impone un guardingo realismo.

Ma se è questa l’intenzione vera, poniamo di recuperare anche Gramsci, occorre dire che tale concetto di egemonia non solo culturale va meglio delineato. In ogni caso può essere una buona occasione questa per capire esattamente di cosa si sta parlando, quando si parla di egemonia, ripercorrendo sinteticamente l’originaria formulazione di questo fondamentale concetto, la cui elaborazione in Gramsci fu lunga e parecchio articolata.

Occorre subito dire che tale formulazione  risale nella sua forma compiuta al periodo dei “Quaderni del carcere” (1929-1937) cioè al periodo  che segue la sconfitta e l’imprigionamento del leader comunista. Quella dell’egemonia, è una riformulazione più raffinata e meditata dei meccanismi da attuare per la  presa del potere.
Nel periodo precarcerario Gramsci infatti ragionava in tutt’altri termini, più tellurici, e cioè:  di spirito di scissione (di origine soreliana), e di subisso apocalittico, di rottura fondamentale  (leggi: rivoluzione), e prediceva con toni duri e ultimativi che se tutto ciò  non fosse riuscito «a collocare la classe operaia nelle coscienze delle moltitudini e nella realtà politica delle istituzioni di governo, […]  il nostro paese sarà il centro di un maelstrom che trascinerà nei suoi vortici tutta la civiltà europea», (art. “Previsioni” in “Avanti!” ed.torinese 19 ott. 1920). Infine indicava il programma della classe operaia in questi termini: «sistema soviettista invece che Parlamento nell’organizzazione statale, comunismo e non capitalismo nella organizzazione dell’economia nazionale e internazionale». (“L’Ordine Nuovo”, 1° settembre 1924).

Insomma l’accento del Gramsci precarcerario sembrava essere  posto più sulla forza tellurica e gnostico-salvifica della rivoluzione (“subisso apocalittico”, “frattura fondamentale”) che sul lento processo molecolare (aggettivo molto gramsciano) che invece il concetto di egemonia (politico-sociale oltre che culturale) perora e presuppone. Non sto dicendo che il Gramsci dei “Quaderni” non fosse più un comunista (tutt’altro, esponeva forti tratti totalitari secondo Del Noce), ma c’è chi come Giuseppe Vacca avanza l’ipotesi di un Gramsci approdato a una “Costituente” e che fosse giunto a una concezione più soft, liberaldemocratica, della sua proposta politica, ma che in questa fase del suo pensiero, restando fermo il suo obiettivo politico rifletteva  sulla modalità, con cui perseguirlo, in cui è contemplata la forza verso gli avversari e il consenso verso gli alleati. Augusto Del Noce, a tal proposito, in Il suicidio della rivoluzione lo ha definito «il più liberale tra gli eredi del marx-leninismo» e il «più umano dei comunisti» e aggiunge che nella sua visione permangono «il massimo della tensione rivoluzionaria e il massimo del moderatismo». Per altro verso Lucio Colletti in Tra marxismo e no sarà scettico e icastico: «Il pluralismo, il pluripartitismo, l’avvicendamento di maggioranza e minoranza, il governo parlamentare e tutto il resto, in Gramsci non ci sono. Il tema dell'”egemonia” in Gramsci non significa nulla di tutto questo. E meno che mai significa superamento o abbandono della “dittatura del proletariato” di Lenin» ( p. 181).

Ma tornando al Gramsci precarcerario, non ancora teorico dell’egemonia, il massimalismo del «biennio rosso» ’19-’20 o dei «quattro anni» secondo l’interpretazione di Nenni – «settarismo» o anche «diciannovismo» verrà chiamato in seguito –  aveva procurato una reazione furibonda nel campo avverso (padronato ed establishment monarchico-istituzionale) determinando secondo la nota tesi di Angelo Tasca l’esplosione del fascismo che ancora nelle elezioni del ’19 era uscito sconfitto, tanto che lo stesso Gramsci riconobbe in seguito in un articolo del 1924: «Fummo, senza volerlo, un aspetto della dissoluzione generale della società italiana». (“L’Ordine nuovo” 15 marzo 1924).

Visti questi antecedenti, una nuova «narrazione» o se volete un nuovo «discorso sul metodo»  si annunciava e si imponeva dunque con l’elaborazione del concetto, più raffinato e sapiente, di egemonia. Concetto che non è sempre agevole ricostruire nelle sue formulazioni e soprattutto nelle sue tante implicazioni, anche con il sussidio del vecchio studio dello storico delle idee Perry Anderson in un saggio del 1976 nella “New Left Review” intitolato “The antinomies of Antonio Gramsci” o la riflessione partecipata e sanzionatoria di Augusto Del Noce (un marxista britannico e un cattolico conservatore italiano). A costoro preferisco la  sintesi che ne fa lo storico delle idee Donald Sassoon nel suo ricco, dotto  e brillante Cento anni di socialismo (Editori Riuniti, 1991).

Premetto per chi non ha voglia o tempo per inoltrarsi nelle tre paginette seguenti  una sintesi For Dummies. Orbene, Gramsci elabora il concetto di egemonia come la somma di due concetti che egli già osserva nel nostro Risorgimento (ossia nella strategia di Cavour vs Mazzini), ossia: dominio con l’uso della forza verso gli avversari e direzione  ricorrendo al consenso  verso gli alleati. Inoltre, mutuando il linguaggio della Prima Guerra Mondiale,  alla quale non partecipò per le note ragioni fisiche, Gramsci dice:  non è più tempo di guerra di movimento o di manovra alludendo sia alle tradizionali guerre napoleoniche per  esempio, ma anche sottotraccia alla rivoluzioni politiche come quella del 1870 in Francia o nel 1917 in Russia che prendono con la violenza lo Stato. Ora nel mondo occidentale tra gli insorti e lo Stato si è installata una forte Società Civile che rende più stringente la strategia di una guerra di posizione e di conquista progressiva di casamatte. Qui strategici sì, sono gli intellettuali organici, i quali hanno una funzione di base equivalente, si passi il termine, a quella  dei sacerdoti nella Chiesa cattolica,  destinati a diffondere il verbo e a elaborare e rafforzare il consenso nelle casamatte della società civile. Consenso ovviamente razionale e non manipolato, e qui molte insidie si nascondono nella nostra società massmediata. Ma una cosa per Gramsci e fondamentale, e cioè che un «gruppo sociale… deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare a essere anche “dirigente“. Altrimenti si avrebbe una  dittatura senza egemonia, una semplice applicazione della forza, si suppone con il ricorso ad apparati repressivi polizieschi, che allo stato si riesce difficile immaginare possa durare nelle nostre articolate, complesse e interdipendenti società occidentali.

A seguire pertanto, per i volenterosi, la  brillante sintesi di Sassoon a sussidio della nostra vacillante memoria e come suggerimento a chi ha solo orecchiato un concetto così denso e complesso quale quello di egemonia in Gramsci.

***

«E impossibile in poche pagine fare giustizia della complessità del pensiero di Gramsci.  è senza dubbio il piú sofisticato teorico marxista della politica nel periodo tra le due guerre. Inoltre, le particolari condizioni in
cui scrisse le sue opere del carcere la paura di incorrere nella censura, il fatto di scrivere senza la certezza di essere letto, la sua salute precariaria- rendono le sue frasi sparse piuttosto difficili da decodificare e interpretare, specialmente perché non è sempre coerente nella terminologia. Qui noi possiamo mettere a fuoco solo un aspetto centrale del suo pensiero: come il suo contemporaneo Otto Bauer, Gramsci fu un teorico della sconfitta del movimento operaio nel periodo successivo al 1918, quando l’Europa borghese fu «ricomposta».
Il suo punto di partenza fu questo: l’assalto diretto allo Stato che aveva costituito l’aspetto primario della lotta bolscevica nell’ottobre del 1917 non era un’opzione praticabile per quelli che operavano in Occidente. Lenin aveva accennato a questo già nel marzo del 1918: «la rivoluzione socialista mondiale non può cominciare nei paesi avanzati cosí facilmente come è cominciata la rivoluzione in Russia, nel paese di Nicola e di Rasputin». Gramsci riteneva che una forte società civile avviluppasse lo Stato in Occidente e
lo proteggesse. La società civile, «almeno per ciò che riguarda gli Stati piú
avanzati», era diventata una «struttura molto complessa e resistente alle “irruzioni” catastrofiche dell’elemento economico immediato (crisi, depressioni, ecc.)». In Oriente (cioè in Russia),

lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte; piú o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale. [Parole di Gramsci]

Conta poco che Gramsci sbagliasse nel considerare la società civile russa
“primordiale e gelatinosa». Quello che importa è la distinzione da lui fatta
tra lo Stato in senso stretto – «una trincea esterna» – e il complesso sistema
che risulta dall’accumulazione di consuetudini e tradizioni, convenzioni e
costumi, dall’intrecciarsi di livelli di relazioni tra i gruppi di élite («quelli che dirigono) e la massa frammentata della popolazione («quelli che sono diretti»). Il potere non risiede in un’unica stanza dei bottoni che, una volta presa d’assalto, mette a disposizione tutti i meccanismi necessari i
frammentaria e disarticolata, in realtà sulla sua diversificazione. Coloro che sono formalmente al comando esercitano un potere reale, ma sono essi stessi soggetti a molteplici costrizioni che non svaniscono d’un tratto appena i precedenti detentori del potere vengono rimossi.
Da un capo all’altro della società civile ciascuno ha ruoli e funzioni, quelli
cruciali essendo appannaggio di un vero e proprio esercito di intermediari il cui compito consiste nell’organizzare il lavoro, la cultura, la religione e il tempo libero (Gramsci chiamava questi – impropriamente – gli «intellettuali»).
La cattura ideologica di questo gruppo è centrale per la conquista del potere.
Nessun sistema sociale complesso può sopravvivere o essere edificato senza di loro.
Essi sono gli educatori, i giornalisti, il clero, i comunicatori, gli artisti, i pubblicitari, i disseminatori della cultura popolare, i quadri tecnici, ecc. In altre parole, tutti quelli che traducono, modificano e adattano e, perciò, costantemente alterano le idee dominanti e accettate sull’ordine esistente in modo che possano essere capite, interiorizzate e accolte da tutti. In questo modo ciò che è storicamente determinato e quindi transeunte appare giusto, naturale ed eterno.  Questi funzionari «intellettuali» definiscono quello che è normale e quindi quello che è «deviante»; essi distinguono l’accettabile dall’inaccettabile in tutti i campi, compresi la produzione e il lavoro, la vita quotidiana e il «senso comune». E poiché ognuno è, almeno in qualche circostanza, un «educatore» o un «organizzatore» in questo senso gramsciano, ognuno è, in certa misura, un «intellettuale». La socializzazione reciproca è l’occupazione di tutti gli esseri umani.
Se questo è vero, allora ne segue (a costo di dilatare il concetto del «politico» fino a includere la vita quotidiana) che quelli che cercano di stabilire un ordine sociale completamente nuovo non possono limitarsi alla «politica» nel vecchio senso – cioè la determinazione delle tattiche e delle strategie politiche richieste per assalire la cittadella dello Stato (in senso stretto).
I compiti sono molto piú impegnativi. Essi richiedono lo stabilirsi di un nuovo tipo di consenso. Tuttavia il consenso non va inteso come qualcosa di statico, ma come un campo di battaglia in cui varie concezioni costantemente rivaleggiano tra loro. Per conseguire l’egemonia, è necessario essere
la forza dominante su questo campo di battaglia.
Ciò che Gramsci chiamava la «guerra di movimento o di manovra» era l’assalto alla cittadella dello Stato (in senso stretto), come nelle rivoluzioni del 1848 (che sfociarono nella sconfitta dei rivoluzionari) e dell’ottobre 1917. Egli considerava un testo particolare, Lo sciopero generale di Rosa Luxemburg (1906), come «uno dei documenti piú significativi della teorizzazione della guerra manovrata applicata all’arte politica». Ma l’encomio finiva qui, perché Gramsci continuava stigmatizzando la strategia luxemburghiana dello sciopero di massa rivoluzionario come una forma di ferreo determinismo economico in questi termini: una crisi economica produce un fenomeno (lo sciopero) che «<in un lampo» getta lo scompiglio tra i nemici, fa sì che essi perdano la fiducia nel futuro, mette in condizione di organizzare le proprie truppe, di creare i quadri necessari e di conseguire la necessaria concentrazione ideologica sul comune obiettivo da raggiungere. Questo, secondo Gramsci, è soltanto <<misticismo storico, l’aspettativa di una sorta di illuminazione miracolosa».
Se Gramsci fosse un critico attendibile del pamphlet della Luxemburg c’interessa in questa sede. Quello che importa è il netto rifiuto della guerra di movimento come strategia per la conquista del potere. Una guerra  del genere è al massimo una tattica da usarsi se e quando necessario, e che, in ogni caso, mette in grado di conquistare «posizioni non decisive».
La via maestra per il potere richiede una strategia differente: la guerra di
posizione. Questa <<domanda enormi sacrifizi a masse sterminate di popolazione» (è, in altre parole, un evento di massa di lungo termine): «è necessaria una concentrazione inaudita dell’egemonia… guerra di posizione”, una volta vinta, è decisiva definitivamente».

In un altro quaderno Gramsci sottolineava che un «gruppo sociale… deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare a essere anche “dirigente”. Questo può essere interpretato come una prescrizione cronologica: in primo luogo si richiede una
sufficiente egemonia per impadronirsi della macchina dello Stato; in secondo luogo l’effettiva presa del potere; quindi il consolidamento egemonico.
Altrove, tuttavia, Gramsci ha scritto: «La verità è che non si può scegliere la
forma di guerra che si vuole, a meno di avere subito una superiorità schiacciante sul nemico». Ne segue che in realtà il «momento» della conquista dello Stato è esattamente questo: solo un momento in un processo rivoluzionario. Paradossalmente, prendere il potere nel momento sbagliato può causare la sconfitta nel lungo termine. Ciò che conta più di tutto è un’accurata conoscenza del nemico, poiché in politica (cioè nella guerra di posizione) «l’assedio è reciproco». Anche il nemico combatte una guerra di posizione in ciò che è una «rivoluzione passiva» -vale a dire la modificazione graduale del suo proprio sistema di potere attraverso la riorganizzazione dell’egemonia. Questa riorganizzazione è ottenuta attraverso modificazioni molecolari che in realtà modificano progressivamente la composizione precedente delle forze e quindi diventano matrice di nuove modificazioni».

Cosi, secondo il modo di vedere di Gramsci, il Risorgimento italiano fu vinto dai moderati (Camillo Cavour e il Piemonte) perché Cavour, adottando i principi della guerra di posizione, comprese non solo il suo proprio ruolo, ma anche quello del suo oppositore, Giuseppe Mazzini, che, al contrario, non pare fosse consapevole del suo e di quello del Cavour.

Cavour fu capace di assorbire elementi del campo mazziniano modificando la sua strategia e ottenendo il sostegno internazionale. La sua superiorità non si basava soltanto su una maggiore comprensione della situazione nazionale, ma anche dei rapporti di forza internazionali (nella misura in cui l’unificazione italiana fu resa possibile dal gioco politico reciproco delle potenze europee) e del fatto che, dopo il 1848, l’Europa era entrata in un periodo in
cui la guerra di movimento avrebbe portato solo alla sconfitta.

È importante capire che questo tipo di analisi regge purché si vada al di là delle metafore militari che permeavano il discorso di Gramsci. Esse sembrano suggerire che sia tutto nelle mani dello stratega superiore visto come una sorta di «uomo del destino», in grado di dare forma agli eventi piú o meno a suo piacimento anche se all’interno di determinati limiti storici. È vero che Gramsci analizzò il fascismo nei termini dell’intervento di un «uomo del destino» (Mussolini). Ma egli vedeva Mussolini come il risultato di un particolare rapporto di forze (nel caso italiano, la forma assunta dalla crisi politica fu una paralisi del parlamento), che richiedeva una soluzione per  «sbloccare» il sistema -in questo caso, una soluzione  «extraparlamentare»
Il fascismo era la forma assunta in Italia dalla «rivoluzione passiva» come risultato della crisi postbellica. L’ascesa di Mussolini era la prova della debolezza del sistema di governo italiano. Ma era l’intero sistema capitalistico che stava subendo una «rivoluzione passiva», una riorganizzazione del potere resa necessaria dalle esigenze del passaggio dal «vecchio individualismo economico», cioè il laissez-faire, all’«economia programmatica», vale
dire il capitalismo amministrato.
Gramsci usò le sue categorie fondamentali per analizzare lo sviluppo del capitalismo americano (Americanismo e fordismo). La posizione economica propizia dell’America veniva fatta risalire all’assenza di un passato feudale e alla sua conseguente più «razionale composizione demografica». Essa si avvantaggiava del fatto di non avere numerose classi prive di funzione essenziale nel mondo della produzione – cioè classi puramente parassitarie costituite di aristocratici, di coloro che vivono di rendita e dei loro innumerevoli faccendieri. La «tradizione» europea, la «civiltà» europea, era al contrario caratterizzata precisamente dall’esistenza di classi simili, create dalla «ricchezza e dalla complessità della storia passata. Poiché non è «gravata
da questa cappa di piombo», l’egemonia negli Stati Uniti «nasce nella fabbrica e non ha bisogno per esercitarsi che di una quantità minima di intermediari professionali della politica e dell’ideologia». Gli alti salari caratteristici della produzione fordista costituiscono il mezzo «ideologico
per ottenere la complicità dei lavoratori». E forse in questo passaggio, più che altrove, che si può sentire la materialità del concetto gramsciano di egemonia: essa è molto più che una semplice questione di propaganda e di instillazione delle idee «giuste», una sorta di incessante lavaggio del cervello globale. Essa è qualcosa che comprende le condizioni di esistenza, come un tenore di vita desiderabile, o anche lo sviluppo di una «forza-lavoro specializzata e ben articolata».
Dove il contributo di Gramsci è stato poco innovativo è nella concezione del partito: avendo esteso il concetto di egemonia ben al di là della vecchia nozione leninista della battaglia ideologica, egli assegnò al partito compiti che un’organizzazione del genere era semplicemente inadatta a svolgere. Il vecchio partito leninista doveva essere l’avanguardia della rivoluzione.
Il vecchio partito socialdemocratico (kautskiano) doveva attendere il momento della crisi del capitalismo. Ma il partito di Gramsci aveva un compito molto piú formidabile: esso doveva costruire un nuovo Stato in senso lato. Toccò al successore di Gramsci, Togliatti, nelle condizioni molto piú favorevoli dell’Italia del dopoguerra, quando era stata reinstaurata la democrazia, tentare di costruire un partito nuovo, un nuovo partito di massa meglio equipaggiato dal punto di vista organizzativo e ideologico sia di quello leninista che del vecchio partito operaista della Spd. Gramsci aveva spiegato quali dovevano essere i compiti di questo partito, di questo «nuovo principe» (nel senso machiavelliano). Ma non forní indicazioni intorno a cosa esso sarebbe dovuto essere. Esistono, naturalmente, passaggi nei suoi scritti in cui il termine «partito» viene usato in modo vago (ad esempio un giornale può essere un «partito»), Ma interpretandolo in questo modo, il concetto diventa cosí generico da essere praticamente privo di significato, oppure esso implode nel suo contrario: i compiti della rivoluzione non possono appartenere a un partito o a dei partiti, ma vengono trasferiti a una molteplicità di terreni e di lotte. Una tale interpretazione, cosí sovversiva del concetto leninista di partito, è possibile e legittima; ma non appartiene al Gramsci storico.
Il merito centrale di questo Gramsci (se si può parlare di «centralità» a proposito di un pensiero cosí diffuso) è che, non diversamente da Otto Bauer, egli abbandona il dilemma «riforme o rivoluzione» nell’unico modo possibile: andando al di là. Il concetto di rivoluzione può riferirsi sia alla conquista del potere dello Stato, sia all’intero processo di transizione da una società a un’altra.

Donald Sassoon – Cento anni di socialismo, Editori Riuniti, Roma 1991, pp. 89-92.
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Bibliografia e sitografia  di riferimento

> Perry Anderson  “The antinomies of Antonio Gramsci” in “New Left Review” >>>urly.it/3_dqm

> Augusto Del Noce – Il suicidio della rivoluzione-, ed. per Corriere della Sera, 2012

> Massimiliano Panarari – L’egemonia sottoculturale. L’ Italia da Gramsci al Gossip– Einaudi, Torino 2010

> Donald Sassoon – Cento anni di socialismo, Editori Riuniti, Roma 1991Antonio Gramsci- Quaderni del carcere– ed.digitale (che riporta integralmente quella a cura di V. Giarratana, Einaudi, Torino 1975)

Furio Jesi – Cultura di destra, Nottetempo 2012

> Lucio Colletti – Tra marxismo e no – Laterza Bari 1979

> Per Pietrangelo Buttafuoco e il suo islamismo sciita duodecimano vedi suquesta piattaforma il mio  L’islam di Pietrangelo Buttafuoco.

> Per una lettura collaterale, ancora su questa piattaforma, il mio Il Gramsci rivoluzionario di Diego Fusaro

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