Partiti e politici
La crisi (definitiva?) dei partiti
I partiti non godono di buona salute, non c’è dubbio. Le tappe di una crisi epocale dell’antico legame tra elettori e partiti sono il riflesso della progressiva perdita di rilevanza delle appartenenze politico-sociali, che caratterizzavano la sostanziale stabilità e polarizzazione dell’elettorato italiano nel secondo dopoguerra. Il mondo occidentale nel suo complesso, ed il nostro paese in particolare, ha vissuto come noto per decenni una forte stabilità di comportamento elettorale, quando le motivazioni di voto erano attribuibili per una vasta quota di elettori al cosiddetto “voto di appartenenza”, demarcato per questo da un forte livello di fedeltà, una “fedeltà pesante”, come è stato spesso definita, frutto del radicamento delle tradizionali sub-culture cattolica, da una parte, e social-comunista, dall’altra.
Durante gli anni del successo di Berlusconi, a questa si è sostituita una sorta di “fedeltà leggera”, cioè da un tipo di vicinanza politica (e fedeltà di voto) legata allo schieramento bipolare (pro o contro Berlusconi). Ma anche questo nuovo tipo di fedeltà è terminata, lasciando il posto, da almeno un decennio, ad una inedita volatilità elettorale, scelte piuttosto superficiali veicolate dalle sensazioni collettive del momento, dai discorsi dei leader politici, alle quali si può presto rinunciare senza per questo sentirsi un traditore (l’elettore liquido di Bauman).
E ai partiti, oggi, crede sempre meno gente, ci si fida sempre meno. Nelle ultime elezioni amministrative, nelle città chiamate al voto, soltanto poco più del 40% di chi si è recato alle urne ha scelto il simbolo di una delle tradizionali forze politiche. Tra queste, la metà dei voti l’ha presa il Partito Democratico, forse l’ultimo partito esistente, non per nulla così definito nel libro mio e di Fasano di qualche anno fa. Considerato poi che la partecipazione è stata più o meno del 55% degli aventi diritto, significa di fatto che un “partito classico” è stato votato da meno di un quarto degli elettori italiani, che hanno viceversa preferito, accanto appunto all’astensione, liste dei candidati sindaci o una delle tante liste civiche presenti sulla scheda elettorale.
Una crisi forse irreversibile della classica forma di partito, non a caso sostituito o dai partiti nati sulla Rete, come i tentativi del Movimento 5 stelle e di Podemos, o sempre più frequentemente dai partiti personali, da Berlusconi fino a Salvini e Meloni. Partiti personali che oggi sembrano ormai gli unici che possano sopravvivere, anche se con un tempo di vita sempre più breve e provvisorio, presto sostituiti da altre figure, in una costante ricerca del nuovo più nuovo, che illude ma rapidamente disillude.
Accanto alla più volte menzionata esigua fiducia che gli italiani dichiarano di avere complessivamente per i partiti politici (intorno al 15%), più elevata soltanto dei rom, un altro dato piuttosto preoccupante per la salute delle odierne forze politiche è quello relativo ai giudizi che gli elettori danno a ciascuno dei partiti. Quasi il 55% li giudica, uno dopo l’altro, tutti non meritevoli della sufficienza, ivi compresi coloro che comunque li voteranno. L’Italia non è più un paese per i vecchi partiti.
Università degli Studi di Milano
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