Partiti e politici

Marchesi, la coerenza incoerente di un grande intellettuale del novecento

9 Novembre 2019

Luciano Canfora è, soprattutto, uno scrittore prolifico che unisce al profondo rigore scientifico una non comune capacità espressiva e “Il sovversivo. Concetto Marchesi e il comunismo italiano”, un volume di quasi mille pagine edito da Laterza, potremmo dire che è manifesto di questi caratteri.

Un tema non nuovo che Canfora ha in parte affrontato qualche anno, a proposito delle responsabilità di Marchese nell’assassinio del filosofo Giovanni Gentile, nel volume “La sentenza” pubblicato nella fortunata collana La memoria dell’editore Sellerio.

Senza andare molto per il sottile ne cadere nel classico vizio italiano che un proverbio sintetizza nel “difendi il tuo o torto o dritto” Canfora, marxista per fede politica, ripercorre infatti il cammino di vita personale e le esperienze culturali di un intellettuale di prima grandezza ma anche di un protagonista della politica italiana del novecento, quale fu Concetto Marchese.

Un intellettuale Marchese che, in qualche modo, esprime in modo emblematico, le contraddizioni del comunismo italiano della prima metà del secolo breve, molto influente nel mondo della sinistra comunista al quale, lo mette ben in evidenza Canfora, si perdona tutto perfino l’imperdonabile.

Il Marchesi che viene fuori dalla biografia di Canfora è un personaggio molto complesso, un personaggio che al rigore intellettuale accoppia forti ambizioni personali, un uomo che non rinuncia a posizioni o privilegi anche quando l’imbarazzo dell’accettazione gli consiglierebbe ben altro comportamento.

Uno spudorato mentitore che gode di una sorta di benevola comprensione, mai smentito anche per opportunismo politico Marchesi, come scrive Canfora, costruisce una singolare genealogia personale; così, lui che discende da una grande famiglia aristocratica, per accreditare la sua militanza politica, si mimetizza nel figlio di proletari carichi di ansia di riscatto e vi aggiunge perfino un profilo fantasioso di rivoluzionario perseguitato e recluso, fin dagli anni giovanili, nelle patrie galere per atti di ribellione.

Proprio il tema dei natali di Marchesi, che Canfora mette in luce come eccentricità caratteriale, forse è molto di più che un’eccentricità in quanto ha condizionato, a mio modo di vedere, le sue scelte di vita. Con una libera interpretazione, si potrebbe infatti dire, che le scelte politiche dell’intellettuale, potrebbero essere il frutto di una sorta di “malattia infantile”, quasi una perversione: l’odio per le classi sociali aristocratiche e borghesi alle quali per nascita apparteneva e delle quali, per ragioni economiche, non poteva godere i privilegi.

Un odio che si estende alla Chiesa a cui l’avo aristocratico, che aveva generato illegittimamente il suo diretto ascendente, apparteneva e ne era importante esponente.

Dunque, socialismo (di stampo rivoluzionario) e anticlericalismo (di chiara impronta massonica), scandiscono la sua vita anche se troppo all’interno di una quotidianità conformistica – maschera tragicomica – che in molti casi assume caratteri parossistici.

La carriera di Marchesi, scrupoloso e intelligente ricercatore, è folgorante docente universitario, cattedratico di grande autorevolezza e, infine, rettore della prestigiosa università di Padova dove, dopo le esperienze messinesi, aveva trovato sede soddisfacente.

Una carriera che si svolge, tutta, negli anni in cui il fascismo assume il potere e che, impostosi come regime, manifesta la sua vocazione totalitaria.

E qui, un altro capitolo importante della vita del nostro intellettuale proveniente dal sud che appare perfettamente integrato nel contesto accademico patavino.

Canfora, con molta libertà e senza pregiudizi, infatti indaga e racconta dei rapporti fra il nostro intellettuale e il fascismo. Rapporti segnati da grande ambiguità, nel senso che Marchesi non pare manifestare alcun atto di ribellione e, perfino, non espresso fastidio nei confronti delle imposizioni mussoliniane.

Accetta infatti di obbedire e si sottopone all’ignominioso giuramento imposto dal regime ai docenti universitari, giura ancora fedeltà al regime per entrare a far parte del cenacolo degli eletti dell’Accademia dei lincei, giura perfino per accedere all’Accademia d’Italia, l’istituzione voluta dal regime per “promuovere e coordinare il movimento intellettuale italiano“.

Inoltre, non sottrae la sua partecipazione ad eventi celebrativi, come quello di Virgilio o quello di Augusto, che vengono promossi dal regime con grande profusione di mezzi, per esaltare il regime. Una partecipazione, con qualche riserva mentale che, sicuramente, non traspariva e che invece dava pieno lustro e legittimazione al fascismo.

Di questa sua partecipazione il Marchesi accampava varie giustificazioni, a cominciare da una sorta di consenso che il partito comunista, di cui egli clandestinamente continuava a far parte e con il quale millantava una continuità di rapporto, gli aveva dato.

Proprio su questo millantare Canfora mette il dito nella piaga, allargando lo spazio del dubbio, rilevandone le contraddizioni ed evidenziandone le ambiguità e le trappole nelle quali lo stesso partito comunista e i suoi esponenti di spicco, a cominciare da Togliatti per andare ad Amendola, cadono.

Guai, dunque a mettere in dubbio la linearità e la fede di Marchesi, ne fa le spese un intellettuale di grande spessore come Ludovico Geymonat che, ne 1957 sulla, Stampa osa ricordare il giuramento al fascismo di Marchesi e viene malamente rimproverato dalle colonne dell’Unità con la conseguente richiesta di espulsione, per indegnità, dal partito.

Su questi comportamenti, se non altro dubbi, Marchesi costruisce delle versioni ad usum delphini che vengono acriticamente accettate dal partito senza dare luogo a scandalo, come sarebbe stato normale ad esempio a proposito del rapporto con il ministro della Repubblica Sociale Biggini – che pur fascista mostrò rigore e tolleranza nei confronti del corpo docente dello Stato fantoccio costruito da Mussolini – che l’aveva confermato rettore a Padova, lo aveva protetto in seguito e con quale aveva mantenuto una cordiale familiarità epistolare.

Un altro capitolo della vita professionale di Marchesi che Canfora mette sotto lente, è la sua attività scientifica. Marchesi, come riconosce Canfora è stato indubbiamente un eccezionale conoscitore del mondo latino e della sua storia culturale, la sua Storia della letteratura latina costituisce un punto fermo degli studi classici, come gli scritti su Sallustio, su Cesare, su Augusto e su Tacito. Su Cesare, in particolare, L’età di Cesare, riprende la nozione di cesarismo che gli servirà per giustificare la politica di Stalin.

Ma questa sua attività scientifica trova una motivazione forte nel tentativo di operare dei parallelismi fra il presente vissuto e quel passato glorioso. Operazione che lo porta a continui aggiustamenti o modifiche delle tesi sostenute.

Attraverso le opere di quegli scrittori e l’azione di quei grandi uomini, Marchesi elabora sottili tesi di contestazione o di approvazione delle politiche fasciste. Tali discorsi, però, appaiono così sottili che il regime non riesce a decodificarli tanto da considerare le opere come accettabili in un momento in cui la censura è notevolmente occhiuta e non tollera nessuna opinione eretica.

Ma queste opere, rileva Canfora, sono sottoposte a continui aggiustamenti, dettati più dalla sua personale posizione politica che da esigenze tecnico-scientifiche. Insomma, Marchesi è, sì un grandissimo cultore della latinità ma, è tuttavia, un grande manipolatore, un interprete certamente non sempre fedele perché dentro quelle interpretazioni c’è sempre il suo interesse pratico, c’è il suo sguardo inquieto sul mondo che gli sta attorno.

Esempio eclatante è il suo Augusto che, ripubblicato nel dopoguerra, vede espunte parti che potrebbero essere lette come compromettenti aggiunte altre parti che lo renderebbero più confacente alla sua milizia politica nel tempo presente.

Caduto il fascismo la sua ambigua figura, nobilitata dall’esilio svizzero, acquista peso e viene mitizzata, il mito dell’intellettuale che gli viene cucito addosso e la sua posizione si fa sempre più intransigente, a renderlo immune da richiami come nel caso del suo voto contrario – sicuramente per fedeltà massonica – all’inserimento dei Patti lateranensi in Costituzione voluto proprio da Togliatti, è il fascino che esercitava su personaggi come proprio Togliatti, fascino che diviene una sorta di passepartout.

Alcune sue tesi espresse in Parlamento e attraverso gli organi di stampa richiamavano un estremismo che andava oltre la linea politica ufficiale del partito.

Marchesi si fa sostenitore della tesi di una fascistizzazione del nuovo Stato repubblicano, additando Scelba come organizzatore di malviventi, criticava fortemente la destalinizzazione e ridicolizzava il suo interprete Nikita Kruscev. Marchesi è anche fra i più feroci critici della rivolta ungherese del ’43 approvando, senza se o ma, la repressione sovietica.

Insomma si manifesta come un bolscevico in salsa italiana che piace al mondo comunista e, nonostante tutto, anche a Palmiro Togliatti, il suo leader indiscusso, nel quale aveva trovato, fin dal suo abbandono della solidarietà bordighiana, pieno sostegno.

In conclusione, il volume di Canfora, molto informato e rigoroso come nel suo stile, è sì la riproposizione in chiave storica della biografia di un protagonista della cultura italiana della prima metà del secolo ma è soprattutto una rilettura onesta, al di là del mito, della vita di un uomo le cui ambiguità e le cui debolezze, figlie di un individualismo esagerato, sono state spesso messe sottotraccia.

Se non si tratta certamente di una demonizzazione dell’uomo Marchesi si tratta, indubbiamente, di una riconduzione alla nuda verità di un mito, quello del Marchesi, costruito per ragioni politiche e, forse, per qualcosa che a noi, uomini del presente, continua a sfuggire.

 

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