Partiti e politici

La candidatura innaturale

14 Gennaio 2018

Per Renato Farina, su Libero di oggi, quella di Gasparri è la “candidatura naturale”, la più competitiva per vincere la Regione Lazio. “Il centrodestra candidi Gasparri se non vuol perdere il Lazio come Roma”, così il titolo in prima pagina.

Per me, lo dico subito, candidare Gasparri alla presidenza della Regione Lazio significa vivere in un altro mondo. E di conseguenza perdere, come a Roma. 

Maurizio Gasparri è apparentemente una scelta in grado di tenere uniti vertici ed elettori di Forza Italia e di Fratelli d’Italia, per la sua duplice lunga militanza (prima nel MSI-AN, poi nel PDL e infine in Forza Italia).

Ed è un candidato noto agli elettori, per cui avrebbe il vantaggio di non dover fare una campagna di visibilità, in un periodo di vacche magre e con tempi ormai abbastanza ridotti da oggi al voto del 4 marzo.

Qui finiscono i vantaggi, del tutto teorici, della candidatura di Gasparri. Teorici per due ragioni.

In primo luogo, la sua duplice lunga militanza è un’arma a doppio taglio, in realtà. C’è ancora chi lo vede in continuità con Storace-Alemanno, come l’ultimo colonnello ex AN da piazzare dall’alto a capo di una qualche giunta nel Lazio. E c’è anche chi lo considera, al contrario, come l’ex AN che più e prima di tutti si è lanciato su Berlusconi quando ha capito che il PDL altro non era che una Forza Italia più grande. Tradotto: non è il candidato migliore per mobilitare tutti gli elettori della propria area politica, anzi è parecchio divisivo.

Si potrebbe obiettare che questa volta c’è l’election day e il “vento di destra” dovrebbe avvantaggiare alle elezioni politiche la coalizione di Berlusconi & co., con effetto trascinamento sui voti alle regionali.

Tuttavia, ci sono due caveat anche in questo caso:

1. Il candidato conta sempre: Veltroni nel 2001 arrivò 3 punti sopra Tajani alle elezioni comunali di Roma, nel giorno in cui il centrodestra sopravanzò di oltre 10 punti il centrosinistra alle elezioni politiche, nella circoscrizione romana. L’elettore è pigro e disattento, ma se il candidato proprio non gli va giù non concede il proprio voto in scioltezza, a mo’ di automa. Lo faceva, in parte, quando la politica era fatta dai partiti e il suo voto era stabile perché basato su credenze forti. Con la politica personalizzata e la fedeltà elettorale molto leggera, il candidato conta parecchio, quasi sempre più dei partiti.

2. Il vento di destra c’è, ma nel Lazio mica tanto. Zingaretti esce da 5 anni di governo molto “comodi” – per varie ragioni politico-mediatiche di contesto – ed è appoggiato da tutto il centrosinistra. I 5 Stelle hanno nel Lazio – e in particolare nella provincia di Roma – il proprio fortino elettorale (avendo vinto le elezioni comunali a Roma, Anguillara, Ardea, Civitavecchia, Genzano, Guidonia, Marino, Nettuno e Pomezia). Insomma, non è propriamente un’elezione vinta in partenza, anzi. Per di più, ad oggi, c’è Pirozzi in campo, esattamente nella stessa metà campo di Gasparri. Ciò significa che il candidato del centrodestra non vincerebbe neanche portando alle urne tutti i suoi elettori, sia per la competitività degli avversari, sia per il drenaggio di voti operato da Pirozzi. Serve qualcuno in grado di intercettare i consensi degli indecisi e dei potenziali astenuti. E in nessun caso quel profilo attiene a candidati fortemente identificati, come Gasparri.  

La notorietà è un altro abbaglio clamoroso. Notorietà non vuol dire fiducia, gradimento, credibilità, attrattività. Essere noti non vuol dire essere amati. Anzi, nell’era della “cerimonia cannibale” (Salmon), più un politico è noto ed è sulla scena da tempo, più ha probabilità di essere odiato, o quantomeno di essere considerato “scaduto”, fuori tempo massimo. La notorietà di Gasparri si traduce nel fatto che l’opinione pubblica lo conosce da decenni (è in Parlamento da 25 anni, è stato ministro e se lo ricordano tutti… e fa politica da sempre) e ha avuto modo di farsi un’idea abbastanza stabile. E quell’idea, a naso (e sondaggi alla mano), non è propriamente positiva.

Di conseguenza, l’unica strada per il centrodestra è puntare su un profilo totalmente diverso. D’altronde non si capisce perché da tempo Berlusconi lanci candidature ipotetiche come Draghi o Marchionne, Parisi o Bertolaso all’insegna dei manager esperti e contro i politici di professione e poi per il Lazio dovrebbe puntare su un politico “puro” che, come quasi tutti i politici puri, non gode affatto di un alto gradimento.

Il profilo diverso in campo c’è già, ed è quello di Pirozzi. Altre ipotesi utili, sono quelle di Gennaro Sangiuliano o di Guido Bertolaso, tornato in auge nelle ultime ore, ma già smarcatosi con un tweet.

Se il sindaco di Amatrice restasse in campo, la soluzione migliore sarebbe quella del ticket, con un candidato alla presidenza e l’altro alla vicepresidenza. In questo caso, anche un candidato identificato – purché mediamente gradito – potrebbe funzionare. Ad esempio, Fabio Rampelli. In quel caso, Pirozzi servirebbe a intercettare anche indecisi e astenuti, mentre il candidato di “scuderia” dovrebbe compattare e mobilitare l’elettorato fedele dei partiti di centrodestra.

Se questa formula non va giù ai partiti di centrodestra – se cioè non vogliono concedere a Pirozzi la candidatura alla presidenza – allora non resta che scegliere un profilo extra-politico, con un consenso potenzialmente trasversale, catch-all, e provare il miracolo. L’importante, specie in quel caso, è osare.

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