Partiti e politici
La “banda dei 5” deputati incrementa (ma di poco) il sentimento anti-casta
Se era rimasto qualche piccolo (ma veramente piccolo) dubbio sull’esito del referendum del 20 settembre, sulla riduzione del numero dei parlamentari, il comportamento della “banda dei cinque” deputati l’ha forse definitivamente tolto. La loro “piccineria” avrà certamente convinto anche quei pochi dubbiosi rimasti, ancora incerti se mantenere la supposta casta dei quasi mille eletti, tra Camera e Senato, oppure se ridurli a seicento (400+200) come nella legge fortemente voluta dai 5 stelle. Pur nella perplessità dovuta allo strano tempismo delle notizie trapelate dall’Inps (un favore al partito del Sì?), il risultato finale del referendum non era certo in bilico. Nonostante la presa di posizione di alcuni rappresentanti politici e opinionisti a favore della cancellazione di quella legge, i sondaggi più recenti ci informano che più dell’80% degli italiani già giudicava favorevolmente il taglio dei parlamentari. Dunque, quasi tutti gli elettori stanno dalla parte della riforma votata qualche mese fa; una riforma che è stata tentata per diversi decenni da tutti i governi, o le bicamerali, che si sono succeduti nel corso del tempo, a cominciare dal 1963 per finire con la riforma costituzionale proposta da Renzi, senza mai riuscirci, per un motivo o per un altro. È curioso ricordare che la limatura approvata in ottobre dello scorso anno è esattamente quella proposta dalla bicamerale guidata da Nilde Iotti e Ciriaco De Mita nel 1994, sull’onda di Tangentopoli.
Ma è forse interessante anche capire come si era arrivati a questo numero di 945 parlamentari (630 alla Camera e 315 al Senato, escludendo i senatori a vita). Ed esiste poi un numero “giusto”? Il percorso, per limitarci all’Italia repubblicana, è molto semplice: la Costituzione del 1948 aveva stabilito che il numero di deputati fosse pari a 1 ogni 80mila abitanti e quello dei senatori a 1 ogni 200mila; era dunque variabile, ed aumentava con l’incremento della popolazione. La riforma costituzionale del 1963 abolì questa variabilità, stabilendo infine la numerosità del Parlamento attuale.
Troppi? Troppo pochi? Impossibile ovviamente dare una risposta a questa domanda. Resta il fatto che l’Italia è il paese che, con quasi un migliaio, detiene oggi il record del maggior numero di parlamentari al mondo di origine elettiva. Con la riduzione a 600, se il referendum lo confermerà, ci troveremmo invece ad un livello intermedio, in compagnia di diversi altri paesi e in linea con le principali democrazie, nel rapporto tra eletti e popolazione elettorale.
Gli obiettivi che hanno spinto alla riforma sono di due tipi: il primo è la maggior efficienza di un Parlamento più snello, mentre il secondo, di gran lunga quello più motivante e sottolineato dai proponenti del M5s, è il risparmio nei conti pubblici. Che in realtà non è poi così eclatante: le analisi ci dicono che si risparmierebbe una cifra compresa tra gli 80 e i 100 milioni l’anno (circa 250mila euro per ognuno dei 345 parlamentari in meno), pari allo 0,006% del nostro debito pubblico. Certo, non è molto, né lo sarebbe se si tagliassero anche gli stipendi di chi siede in Parlamento. Ma è sicuramente un segnale, che come si è visto procede nella direzione indicata dalla volontà popolare, che approva questo provvedimento. È un segnale di populismo, di demagogia un po’ fine a se stessa? Può darsi. Sono in molti a sottolinearlo, sia tra i politici che tra i commentatori. Le campagne e gli atteggiamenti anti-casta sono da sempre presenti nel nostro come peraltro in molti altri paesi, e i politici rappresentano forse l’emblema di ciò che si ritiene essere una “casta”, tanto che nelle periodiche rilevazioni, sono proprio loro quelli che stanno in fondo alle classifiche sulla fiducia, subito prima dei rom.
Che con questa riforma si voglia solleticare la parte più populistica della popolazione può essere vero, soprattutto se non sarà accompagnata – come ormai è quasi sicuro, prima del referendum – da una vera riforma elettorale che renda questo “snellimento” adeguato ad un reale miglioramento delle funzioni legislative (ed esecutive) del Parlamento (e del Governo). E che, soprattutto, si apra un dibattito costruttivo sulla mai risolta diatriba tra rappresentatività e governabilità, tra sistema proporzionale e sistema maggioritario, tra turno unico e ballottaggio. Questi temi, forse, sono più decisivi per le sorti della nostra democrazia, rispetto al fatto che – magari – il Molise avrà un suo rappresentante in meno nel nostro Parlamento. Ma occorre affrontarli e risolverli. Rapidamente.
*Università degli Studi di Milano
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