Partiti e politici
L’erede di Maroni
Ad ogni angolo della mia città, il volto di Giorgio Gori mi fissa da una miriade di manifesti che pubblicizzano la sua candidatura alla presidenza della Regione Lombardia con lo slogan “fare, meglio – libera la forza della Lombardia“.
A me, elettrice di sinistra che vorrebbe finalmente voltare pagina dopo decenni di governo della destra, cadono le braccia. Come è possibile che il “mio” candidato riproponga la retorica berlusconian-formigoniana più stantìa, il solito elogio della proverbiale operosità lombarda e la consueta promessa di affrancarla dai “lacci e lacciuoli” che la ostacolano? E perché quel maglioncino blu, che evoca una deprimente sensazione di dejà vu?
La risposta è nella strategia politica che caratterizza il Partito Democratico dall’avvento dell’era renziana: il mimetismo, cioè il tentativo di vincere sottraendo consensi all’avversario che parte da una posizione di vantaggio. La sua realizzazione richiede un percorso piuttosto impegnativo e una buona dose di “pelo sullo stomaco”.
Il primo passo da compiere è conquistarsi la fiducia degli elettori dell’area politica del rivale, evitando di attaccarla e, anzi, riconoscendo in qualche misura i meriti dei suoi esponenti. Ecco come Gori racconta oggi la sua candidatura a sindaco di Bergamo, nel non lontano 2014: “era una città discretamente amministrata dal centrodestra, dove si viveva abbastanza bene. Ma era come seduta in quell’ “abbastanza” che a noi invece non basta“. Ed ecco come si è recentemente espresso riguardo a Formigoni: “mi sento di riconoscere alla sua gestione una visione. Era portatore di un pensiero forte e di una visione chiara di marcia”; e ancora: “nei 18 anni in cui ha governato la Lombardia, Formigoni ha espresso un’idea forte della politica: lo Stato non deve soffocare la società ma deve favorire il suo fiorire”.
Lo step successivo è lasciar intendere che si condividono gli aspetti fondamentali del pensiero politico dell’avversario, ma sottolineare la sua incapacità di metterlo in pratica. Ad esempio, per Gori la riforma del sistema sanitario voluta da Maroni è apprezzabile nelle sue linee generali (del resto ha appena reclutato nella sua squadra quell’Angelo Capelli che a suo tempo ne fu relatore); è la realizzazione ad essere insufficiente e l’impegno è di migliorarla: “manterremo noi le promesse di Maroni”, ha annunciato il candidato del Pd nel discorso di lancio della sua candidatura.
La tattica camaleontica si perfeziona poi accantonando con prudente disinvoltura le proprie posizioni politiche divergenti, per avvicinarsi a quelle del competitore. Per noi che apprezzavamo il Gori campione dell’accoglienza, che ben gestiva i richiedenti asilo in collaborazione con l’influente mondo cattolico della nostra città (e veniva per questo quotidianamente attaccato dalla Lega), è un’amara sorpresa vedergli liquidare il tema in un capitoletto del suo programma elettorale intitolato “Immigrazione, legalità, sicurezza” (una triade dall’inconfondibile sapore leghista) e sentirgli usare toni vagamente salviniani (“sperimentiamo percorsi di integrazione per chi rispetta le regole e ha voglia di lavorare, e per tutti gli altri esigiamo che si facciano i rimpatri assistiti“; “qualche cosa non funziona se importiamo braccia ed esportiamo cervelli“). I tempi della marcia “senza muri” di Milano sembrano ormai acqua passata.
Ma è quando l’avversario sta per segnare un punto importante a proprio favore che la “strategia mimetica” diventa sorprendente. Lo abbiamo visto quest’estate, quando Gori – già lanciato nella corsa alla Presidenza della Lombardia – ha annunciato il suo convinto sostegno al costosissimo referendum consultivo sull’autonomia voluto da Maroni: una mossa che ha contraddetto il suo precedente appoggio alla riforma costituzionale (di impianto decisamente centralista) e che ha stupito per la sua solerzia, ineguagliata persino dagli alleati del governatore leghista. Portare acqua al mulino della principale iniziativa politica del proprio rivale è una scelta inspiegabile se non, appunto, nella logica di provare ad appropriarsene.
E’ quindi chiaro che Giorgio Gori sta puntando a rappresentare sé stesso più come l’erede che come l’antagonista di Maroni. Agli elettori lombardi, che sembrano propensi a confermare l’amministrazione uscente, Gori promette di proseguirne l’opera con l’efficienza dell’imprenditore e il pragmatismo del sindaco: un pragmatismo che, purtroppo, noi bergamaschi conosciamo bene e che ci ha causato più di una delusione.
Eravamo orgogliosi del nostro Primo Cittadino e delle sue idee sulla partecipazione e sulla mobilità sostenibile ma, a fianco di alcune iniziative ed esperienze positive, abbiamo dovuto prendere atto della scelta di riavviare la costruzione di un contestato parcheggio multipiano entro le mura di Città Alta, compiuta dall’amministrazione senza un vero confronto con il numeroso comitato che ad essa si oppone, con la giustificazione che bloccarla sarebbe troppo costoso (opinione non condivisa dal comitato). Anche la promessa dell’allora candidato sindaco Gori di ridurre l’inquinamento acustico causato dal traffico aereo dell’ hub di Orio al Serio nelle zone limitrofe si è trasformata in una “redistribuzione” del problema su un’area più vasta, con l’escamotage di nuove rotte di decollo e di atterraggio, ma senza mettere un freno alla crescita vertiginosa dell’attività dell’aeroporto. La logica che mette le esigenze dello sviluppo economico al di sopra della tutela del territorio e del benessere dei cittadini è la stessa che ha ispirato decenni di governo di destra della Lombardia, con un record di consumo del suolo e un deficit di iniziative per contenere l’inquinamento atmosferico: ecco perché l’esperienza amministrativa di Gori non lascia sperare in una vera svolta rispetto ai suoi predecessori, ma al massimo in un cambiamento di stile (niente più camicie fiorate o scritte sul Pirellone, insomma).
Si poteva senza dubbio fare meglio che riproporre i consueti sermoncini sulla produttività lombarda da assecondare, sull’autonomia da rivendicare o sulla sussidiarietà da valorizzare: li abbiamo già ascoltati per parecchi anni ed è probabile che li ascolteremo anche dalle labbra del/la candidato/a della destra (Maroni o Gelmini che sia). Da Giorgio Gori avrei voluto qualcosa in più e di ben diverso; ma ormai, purtroppo, sembra davvero troppo tardi.
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