Partiti e politici

Intervista senza sconti a me stesso neo-iscritto al PD

30 Aprile 2023

Professor Cherubini, dopo quarant’anni di lavoro nella società civile senza mai aver avuto alcuna tessera di partito, cosa o chi l’ha convinta ad aderire al PD? Dai suoi dati anagrafici lei doveva essere tra il liceo e l’università negli anni 70. Faceva politica allora?  E’ un ritorno all’ovile?

No, per niente. E’ vero che facevo politica, da studente liceale simpatizzante di un gruppo dell’estrema sinistra, ma allora il PCI non era nelle piazze. Non per noi studenti, e neppure per i disoccupati. Ricordo che c’era il fenomeno dei “Disoccupati Organizzati” di Napoli. Disoccupati e studenti erano fuori dai piani del PCI, o almeno questa era l’impressione che avevamo noi. Ricordo che una volta riuscii a convincere una mia compagna di istituto, il Liceo Dante di Firenze (lo stesso dei Montanari, dei Renzi, dopo di noi, e di Riondino e Hendel prima di noi) a venire in piazza con uno striscione della FGCI, con un gruppo di studenti. Venne raggiunta in piazza San Marco, alla partenza del corteo, da funzionari della FGCI che la costrinsero a togliere lo striscione e andare a casa. Lei mi disse che l’avevo imbrogliata, e forse era vero. Ma non riuscivo a capire perché se eravamo della stessa scuola ed eravamo d’accordo sull’argomento dello sciopero non potessimo sfilare insieme. Ma allora l’ordine era di non autorizzare alcuna manifestazione, e le nostre manifestazioni erano di fatto illegali.

Ma scusi, ma lei sa bene che in quelle manifestazioni la gente ci andava con la pistola in tasca. Ed è per quello che la FGCI non ci andava.

Io non ho mai visto una pistola. Ma è vero che questo è l’argomento che i funzionari delle formazioni giovanili di partito di allora oppongono oggi al fatto di non essere stati nel movimento. Ma è un falso storico. Penso che la generazione a cui appartengo sia oggetto di una “damnatio memoriae”. E anche oggi come nell’antica Roma in qualche modo la “damnatio memoriae” viene decisa dal Senato, inteso come l’intera classe politica. Ricordo che l’ultimo che me l’ha scritto in una polemica su Repubblica è un alto funzionario poi approdato in Parlamento, non mi ricordo più il nome né dove sia finito tra scissioni varie. E’ vero che nella politica di allora c’era violenza, ma non era un fenomeno generalizzato del movimento. Anzi, il movimento si auto-organizzava per difendersi non solo dalla polizia, che alla fine ci tollerava nonostante il divieto, ma anche dall’intrusione di provocatori all’interno dei cortei, che qualche volta ci sono state, anche se non nella mia esperienza.  Il discorso sulla violenza sarebbe lungo, ma diciamo che la violenza che volevamo noi era la manifestazione di piazza. I terroristi erano nemici più nostri che del governo.

Ma quindi mai un pugno, mai uno schiaffo?

No, mai nemmeno un buffetto sulla guancia. Una volta sola mi opposi a un volantinaggio del Fronte della Gioventù alla mia scuola, alzai la voce e il tizio che volantinava mi fece volare il cappello. Visto che nel PD oggi si parla di “armocromia”, io vestivo con una giacca canadese a scacchi rossi e neri, con bottoni tondi e stondata dietro, che doveva ricordare Neil Young, jeans e un cappello nero “à la Lenin”. Quel cappello volò. Ho qualche ricordo del cognome di chi me lo fece volare (erano militanti noti a Firenze) e oggi faccio veramente fatica ad associarlo al docente universitario che ogni tanto parla della destra in televisione. Ma di quel giorno ricordo un’altra cosa. Noi all’interno del liceo ritiravamo i volantini che venivano dati all’ingresso. Non so quanti nemici mi sia fatto quel giorno, ma ricordo un alterco con un compagno della mia stessa formazione che mi diceva che ritirando quei volantini saremmo stati dalla parte del torto. E in quella occasione capii perfettamente che lui era libero, e io no. Lui ragionava con la sua testa. Io invece non potevo farlo, dovevo seguire le mie regole. E direi che oggi quello è l’unico atto di violenza che ho commesso. Ho ripensato a quel giorno quando recentemente c’è stato un volantinaggio di estremisti di destra in un liceo di Firenze, in questo caso terminato con un pestaggio patito dagli studenti di sinistra.

E dopo? Nessuna altra esperienza politica?

No. Poiché avevo fatto politica ho trovato naturale iscrivermi a Scienze Politiche, ma la prima lezione di economia di Fausto Vicarelli mi ha affascinato e ho deciso che mi sarei occupato di economia. Ma anche l’economia era politicizzata. Ho vissuto negli anni dell’università in un clima di polemica feroce tra keynesiani (sinistra) e monetaristi (destra). Ho scelto la via intermedia, la scuola della aspettative razionali, che allora era rappresentata da Mario Draghi. Ma il passaggio alla società civile è avvenuto nella specializzazione negli Stati Uniti. Lì nessuno tirava i libri dietro a un altro per appartenenza a una “scuola”. Lì  l’economia era studiare e risolvere i problemi nel modo più razionale possibile, senza preconcetti riconducibili a ideologie. Ricordo che un giorno a un seminario di Edmund Phelps, premio Nobel, a NYU, vidi entrare un vecchio dirigente del mio gruppo extra-parlamentare. Era venuto a una delle nostre riunioni. Lui non mi riconobbe, perché io ero stato uno dei tanti, ma non lo riconobbi neppure io, sebbene fosse lui. Eravamo diversi. Non eravamo più ideologizzati. Eravamo società civile. Oggi non ci conosciamo, e lui si occupa di teoria economica in un’università degli Stati Uniti e io mi occupo di economia matematica in un’università italiana. Siamo diventati quelli che si dicono due “tecnici”.

E perché il ritorno in politica? Non le basta più fare il tecnico? O pensa che la politica possa aiutarla, o che lei possa aiutare la politica?

Niente di tutto questo. Ritengo che sia giunto il momento di un riavvicinamento della società civile alla politica. Per ora con una tessera. Come tecnico, in quella che in università chiamiamo “terza missione”, sono già intervenuto per quello per cui potevo dare una mano, e l’ho fatto più per spirito di servizio che per soldi. Ma non vale la pena parlarne qui, perché la mia scelta non dipende dalla mia posizione. E’ paradossale che rientro in politica oggi che a questi incarichi e interventi non sono più interessato. Sento di rientrare in politica come membro della società civile, per far sapere alla politica che la società civile la osserva. Dallo stato del dibattito a cui assistiamo è chiaro che la società civile è troppo distante e che né la politica, né i mass media se ne sono accorti. Prendete la battuta di La Russa sull’attentato di via Rasella. Ma non è la stessa cosa che diceva il mio compagno di classe del Fronte della Gioventù al liceo? E’ un esempio di come la classe politica sia rimasta ibernata, e non si sia immersa nella società civile e de-ideologizzata come è capitato a quelli come me.

Ma perché aderire oggi a un partito tradizionale e non ad altri esperimenti, come ad esempio il Movimento 5 Stelle?

Il M5S è stato effettivamente un esperimento di società civile che entra in politica. Ha avuto un ruolo importante perché, al di là delle scelte, abbiamo visto come un pezzo di società civile entrato in politica è stato trattato, e viene trattato tuttora, da chi ha vissuto tutta la sua vita in politica. E’ uno scontro molto duro che continua ancora oggi e che in una parola potremmo riassumere con argomenti da salotto: “poltrone contro divano”. Ci riferiamo ovviamente all’impavido attacco delle poltrone contro quelli che starebbero sul divano che si concluderà con l’offensiva di agosto di abolizione del reddito di cittadinanza. Diciamo che c’è una differenza netta tra la decisione di aderire al M5S e entrare ne PD. Nel primo caso la società civile è entrata in politica con un’organizzazione propria (che non chiamerei “movimento”, ma più “pubblico”, in continuità più con Berlusconi che con i nostri movimenti) fatta con metodi e principi discutibili. Nel secondo caso la società civile, cui il PD si è aperto con le primarie allargate, entra nel partito e si misura con i politici di professione, aprendo anche un dibattito se la politica debba o meno essere una professione (un punto in comune con M5S).

Ma lei è massimalista o riformista?

Ma che domande sono? I massimalisti non possono fare le riforme? Non fu riformista e massimalista allo stesso tempo Salvator Allende in Cile? E non furono i democristiani di là, i centristi, a schierarsi a favore del golpe? E a un certo punto non fu riformista anche Pinochet? Uno può essere riformista e massimalista allo stesso tempo. E un altro può essere riformista e tiranno criminale allo stesso tempo. Il massimalismo può solo stare nei principi che ispirano le riforme, e io ritengo che oggi in Italia ogni scelta politica non possa che essere massimalista e radicale.

Perché solo massimalista?

Perché la politica dovrebbe cominciare dove finisce l’ottimo paretiano. Mi spiego. L’ottimo paretiano significa che per dare qualcosa a qualcuno la devi togliere a qualcun altro. E questo principio, redistribuire con criteri di equità e in modo da garantire ad ognuno lo stesso punto di partenza, oggi è considerato massimalismo. Invece in uno stato normale sarebbe solo una scelta politica. Ma noi oggi siamo ben lontani dall’ottimo paretiano, e quindi dal punto di partenza della politica. Un esempio? Potremmo dare i diritti dello ius soli, in qualunque forma tecnica si voglia, a chi è italiano come noi senza togliere nessun diritto a nessun altro. E’ un problema che non richiede re-distribuzione di alcunché e che comunque la politica non è riuscita a fare. E questa non è politica, è solo violenza che tiene in ostaggio una parte del paese. Io voglio che si sani questa barbarie, e che poi si cominci a parlare di politica, che significa attuare una redistribuzione delle risorse attraverso le riforme.

E’ quindi disposto a impegnarsi in politica?

E’ ancora presto. Per ora basta la tessera. Poi, amo ancora troppo il mio lavoro nella società civile, in particolare la ricerca. E poi, ho ancora idee che il PD forse non accetterebbe. Io sono massimalista per davvero, e il PD non è ancora pronto per il massimalismo vero.

Esempi?

Due. Il primo, a me non piace la parola “comunità”. La parola viene usata dalla Chiesa, e ritengo che sia l’unico caso in cui è veramente appropriata. La comunità richiama il concetto di “gregge” e protegge i suoi componenti, e non chi sta fuori. La mia idea di formazione politica viene ancora dagli anni 70 ed è più legata al concetto di “branco”, che tra parentesi è il concetto opposto di formazioni come quelle del terrorismo. Il “branco” è aperto a chi è disposto a sottostare alle sue regole, e rispetta come capo qualcuno che è della sua stessa specie: non ci sono pecore e pastori. Il secondo, a me non piace l’idea di “avversario” in politica. Il concetto di avversario si attaglia bene allo sport o alle professioni. Con un avversario discuti anche animatamente in difesa di tuoi clienti, e poi ci prendi il caffè. Ma nella politica è diverso.  Tu sei la stessa cosa di quelli per cui ti batti e quelli contro di loro sono anche contro di te. Tu senti le decisioni sulla  loro pelle come se fosse la tua. E se uno conculca dei diritti altrui senza che ne venga nessun beneficio ai diritti degli altri, per me quello è un “nemico”.

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