Partiti e politici

Il voto delle grandi città non è la rinascita della sinistra

18 Settembre 2021

Tra poco più di due settimane si torna a votare. Sono chiamati alle urne oltre 1300 comuni, quasi il 20% del totale, tra i quali 20 capoluoghi di provincia, di cui 6 capoluoghi di regione. Saranno certamente questi ultimi i confronti più interessanti, ma che certo non forniranno chiare indicazioni sull’attuale appeal delle forze politiche anche a livello nazionale. I sondaggi degli ultimi giorni hanno confermato le previsioni che avevo ipotizzato un mese fa: il centro-sinistra (in qualche caso apparentato con il M5s) dovrebbe fare l’en-plein, con l’unica eccezione di Trieste. Nelle grandi città dunque il risultato sarebbe di 5 a 1, e questo secondo alcuni opinionisti è un evidente segnale di ripresa di quell’area politica, contraddicendo in qualche misura l’idea che questo sia un periodo favorevole per il centro-destra, da tutti candidato a prevalere in caso di elezioni nazionali. Ma non è così.

Perché in realtà il segnale proveniente dalle consultazioni del 3-4 si inserisce pienamente in una tendenza ben nota da qualche anno in tutto il mondo occidentale: le aree di maggior benessere di ogni paese votano sempre più per i partiti progressisti. I consensi maggiori per la sinistra democratica in quasi tutte le elezioni giungono infatti proprio dalle aree centrali e più benestanti (New York, Londra, Parigi o Milano) che in passato erano quelle più vicine alla destra conservatrice, mentre le attuali periferie, il vecchio bacino elettorale della sinistra storica, dagli anni Novanta in poi appoggiano sempre più chiaramente leader come Trump, Le Pen, Johnson, Berlusconi, Salvini e Meloni. Le cause, per inciso, sono state più volte discusse e analizzate, e risiedono in sostanza sull’incertezza del proprio futuro da parte della popolazione meno attrezzata ad affrontarlo.

Nessuna sorpresa, dunque. La competizione partitica in Italia (alla stregua delle altre rilevanti democrazie occidentali) ha prodotto nel corso del tempo un graduale passaggio dell’elettorato di sinistra e centro-sinistra, oltre che di parte dell’elettorato moderato di centro-destra, verso partiti di destra, sovranisti o anti-sistema, divenuti così dei veri e propri collettori del voto di protesta o di malessere. Un voto che si può sempre più considerare una manifestazione nel campo elettorale di una nuova frattura fra centro e periferia, tra vincitori e sconfitti della globalizzazione, che oppone individui e gruppi sociali che vivono la loro esperienza professionale e di vita nei luoghi più centrali (in quanto dotati di maggiori risorse, culturali, economiche e sociali-relazionali) della società globale, a individui e gruppi sociali che viceversa vivono in condizioni di crescente marginalità.

Un processo che ha prodotto una (quasi) totale rivoluzione nell’elettorato di riferimento dei diversi partiti: al contrario di soli 30-40 anni or sono, quando gli elettori di sinistra si trovavano soprattutto nelle periferie ed erano in possesso di titoli di studio piuttosto bassi, oggi il profilo del votante progressista è quasi completamente ribaltato, nel segno di un inedito binomio: grandi città e alta scolarità.
Pare dunque che la rivoluzione si stia ultimando. E il risultato delle prossime amministrative ce ne darà un’ulteriore conferma.

Università degli Studi di Milano

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