Partiti e politici
Il voto deciderà molto di più di 7 regioni: elezioni nel 2016 o nel 2018?
Berlusconi che sbaglia piazza, festa e candidato e invita a votare quello di sinistra è l’immagine plastica, involontariamente sarcastica, di questa tornata elettorale. Non c’è davvero molto al posto giusto nel giorno in cui 23 milioni di italiani sono chiamati a dire la propria, si avverte distintamente quel sentimento di distacco dalla politica che non è un’invenzione del pensiero o, piuttosto, un atteggiamento anticasta tanto per, no. È un sentimento con cui gli italiani hanno ormai una certa confidenza, è una reazione indotta, è un prendere atto, come certificazione notarile, dell’incapacità della politica di farsi veramente “Cosa pubblica” e agire di conseguenza per il bene comune.
Dobbiamo al Partito Democratico molta di questa responsabilità, senza tacere però che la destra, come complesso di idee liberali, è insussistente da anni al punto che per una reazione eguale e contraria (al liberalesimo) è nata “felicemente” la nuova Lega di Salvini che agisce sui nostri bisogni primari ai autonomia sociale, sulle nostre paure, e che spinge un “naso” come Celentano a sentire puzza di bruciato.
Ma detto di una destra che non c’è (ancora), senza la quale immaginare una democrazia compiuta, si dovrà riflettere sulla confusione assoluta che regna sotto il cielo della sinistra. La quale, pur essendo un partito apparentemente unico, si presenta splendidamente in ordine sparso come mai gli è accaduto in passato. Paradossalmente, il Partito Unico, ovverosia il Partito Democratico, ne contiene molti altri in contrapposizione a se stesso. Una creatura a più teste che neppure l’abilità di un multitasking come Renzi riesce a domare. Ciò che è accaduto nelle ultime ore di campagna elettorale, con la vicenda Antimafia-De Luca, ha del prodigioso. Un processo di decomposizione politica, lungo qualche mese, che nell’inserimento del candidato all’interno degli “impresentabili” ha avuto soltanto il suo momento catartico ma di cui l’esito finale – anche se non in questi termini clamorosi – poteva forse essere immaginato. Il Pd, impaurito come una creatura alle prime armi, ha subìto la protervia di un uomo volgare al limite della violenza come De Luca, proteggendosi in un silenzio complice, rotto solo negli ultimi giorni di campagna da un affiancamento tardivo e improduttivo. Quella vecchia volpe della Bindi non ha fatto altro che certificarne la debolezza.
Adesso si apre la vera partita di Matteo Renzi. Questo voto può dargli il fiato che manca al partito e di conseguenza al governo. Ma anche precipitare il processo in una spirale senza prospettiva. Ingenua la rappresentazione che non sia un voto sul governo, tutte le elezioni lo sono e basterebbe ricordare come finì in padella Massimo D’Alema proprio a causa di rovinose regionali. Ma soprattutto, ci si chiede come può un segretario del Pd restare ancorato al progetto di votare nel 2018 con una maggioranza del suo tipo, con una larga fetta di deputati dichiaratamente e smaccatamente contro di lui, secondo cui ogni occasione è buona per fargli la ghirba.
Tre anni così sono insostenibili o meglio, sono sopportabili soltanto se dalle urne uscirà il risultato tennistico che sappiamo, quel 6-1 possibile ma poi non così scontato. In caso contrario, sia la flebile opposizione di destra (quella berlusconiana, che pur qualche stampella qui e là in Parlamento continua a offrirla), sia quella interna decisamente più ostica, cominceranno un cannoneggiamento logorante.
Ora che qualche timido segnale di ripresa economica si intravede all’orizzonte, il premier ha rimesso nel cassetto l’idea di votare nel primo giorno utile del 2016, con la nuova legge elettorale. Gli darebbero dell’irresponsabile, questa la sua paura. Ma il progetto lo cova da tempo, perché in questo modo avrebbe finalmente il “suo” partito, senza più i Fassina di mezzo. Un progetto che le urne di oggi potrebbero accelerare o, al contrario, mettere in formaldeide.
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