Partiti e politici

Il problema di Grillo? La politica non è un gioco per educande

30 Novembre 2014

Non bisognava avere le doti predittive al 2048 come Casaleggio per accorgersi (ormai da quasi due anni) che il movimento di Grillo sarebbe andato a incagliarsi inesorabilmente contro gli scogli che il movimento stesso aveva posto in essere.

Nato come una dichiarazione di guerra alla politica, alla corruzione che ne è spesso il contraltare, ai suoi riti e alle tattiche, il movimento di Beppe Grillo si è fondato sul rifiuto “senza se e senza ma” dei partiti e dei modus operandi degli stessi. Così facendo è riuscito senza ombra di dubbio a catturare il malessere di un paese claudicante, ma per farlo si è dovuto privare delle architetture della politica che sono indispensabili sia al suo dispiegarsi nel potere legislativo, che al mantenimento del consenso nel paese. Ognuno dei roboanti “no!” che il movimento ha detto in questi due anni si è inevitabilmente trasformato in un “e quindi?” da parte degli elettori.

A cominciare dal no a qualsiasi forma di alleanza che la gran parte dell’elettorato ha interpretato con maturità come uno slogan elettorale efficace, salvo poi scoprire incredulo dopo il voto che non si trattava affatto di uno slogan, ma di pura e semplice ingenuità politica. Rinunciare ad alleanze strategiche in politica equivale a non fare politica. Non esiste altra forma, a parte la dittatura, per incidere sulla realtà se non l’uso strategico delle alleanze con altre forze politiche per il raggiungimento di un obiettivo. Ma per fare un’alleanza bisogna essere pronti a cedere su alcune cose, a trovare compromessi anche difficili da mandar giù. In una parola la politica va vissuta come vive un adulto, non come sogna un bambino.

Ai partiti tradizionali sarebbe bastata questa di ingenuità per perdere consenso nel paese, ma i “nostri” eroi pentastellati incarnavano una rabbia ventennale. Ci si è passati sopra, aiutati dal fatto che a un certo punto, finalmente, il no alla televisione sembrava fosse rientrato. Di colpo il povero elettore pentastellato ha potuto vedersi riconosciuto il diritto di tribuna che per mesi e mesi gli era stato negato. Ricalcando l’immaginario fantozziano si è ritrovato in canottiera bianca, pizza e birra a guardare i talk show in diretta 7 giorni su 7. E giù applausi quando un ragazzo mediamente dotato di buon senso come Di Maio finalmente dava una veste umana alla forza corrosiva del movimento. E per sognare un po’ e non sentirsi soltanto incazzati a morte, ecco arrivare il bel Di Battista a raccontare le magnifiche sorti e progressive del cammino politico dei 5 stelle. Ma la sconfitta delle europee (aiutata da inviti a vivisezionare dudù e scemenze a gogò del capellone col cappellino) ha portato Grillo a chiudere tutti i microfoni per i propri parlamentari. Deluso dal raddoppio di Renzi, convinto che prendere il 20% non fosse affatto una sconfitta, l’elettore a 5 stelle si è visto così privare di quel diritto di tribuna che in parte lo compensava di una vita di stenti in un paese a pezzi.

Ma non finiscono qui le ingenue rinunce di Grillo. Il no alla forma-partito ha messo il movimento in una posizione ingestibile con il dissenso interno. Privo di riti e regolamenti che organizzassero le opinioni divergenti, si è trovato a ricorrere alle espulsioni. E nuovamente il povero elettore a cinque stelle si è scoperto più smaliziato dei suoi eletti a chiedersi che senso avesse rinunciare ai pochi parlamentari del movimento e con essi a parte di un consenso multiforme che lo ha portato al 25%.
Fino ad arrivare alla creazione del Direttorio di venerdì scorso che prova inutilmente a mettere una pezza a un problema che è molto più radicato: per fare politica serve un partito. Perché nella parola stessa contiene il senso della sua missione: difendere gli interessi e le aspirazioni di una “parte”. Ma questo richiede inevitabilmente organismi dirigenti eletti da comitati di base, sedi nel territorio e non solo virtuali, correnti in grado di rappresentare l’eterogeneità delle posizioni politiche interne.
E così l’elettore pentastellato, incapace di capire come sia stato possibile finire nelle mani di una manciata di ingenue educande, si prepara a un lungo periodo di astensione, o nei casi di maggiore sofferenza della crisi e di totale deserto valoriale, a votare quasi per reazione il più spregiudicato di tutti: Salvini.

 

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