Partiti e politici
Il primo giorno nell’America di Trump
Ossessionati dall’idea di far sentire a tutti la nostra opinione siamo diventati completamente incapaci di ascoltare e perfino di vedere.
Trump ha raccolto alle Primarie piu’ voti di chiunque altro nella storia recente del Partito Repubblicano e i suoi comizi, per mesi, hanno fatto registrare folle oceaniche. Se si e’ trascurato tutto questo e’ perche’ ormai abbiamo confuso il virtuale con il reale, e diamo credibilita’ a un fenomeno solo attraverso una quantizzazione in like. Rinchiusi in tante piccole bolle virtuali separate da compartimenti stagni, se un mio amico non twitta una certa un’idea, allora per me quell’idea non esiste e non esistera’ mai.
Campioni di questo processo di rimozione dei fatti e della realta’ sono i giornali e le TV, che rinchiusi in campane di vetro sempre piu’ piccole pensano di disporre di portentosi cannocchiali con cui osservare e comprendere la realta’ dal calduccio delle loro redazioni, senza capire che quei cannocchiali hanno smesso di funzionare da circa quindici anni.
E’ il caso del New York Times, che dopo aver scritto per mesi che non c’era partita, mercoledi’ mattina se ne esce bello fresco senza che nemmeno ci sia traccia, in prima pagina, della notizia di cui tutto il mondo sta parla da ore.
A New York e’ una giornata fretta, piove, il tempo rispecchia perfettamente l’umore di tutti gli hipsters di Brooklyn. Alle 11 di mattina, con comodo, Hillary si presenta davanti ai suoi elettori: in un caffe’ tutti stanno con l’orecchio attaccato alla diretta Facebook per ascoltarla in religioso silenzio. Sembrano i francesi attaccati alle radio il giorno prima della presa di Parigi nel 1940.
Tutti applaudono, qualcuno piange. Hillary si rivolge alle bambine d’America, dice che nessuna di loro, dopo quello che e’ accaduto ieri, deve pensare sia impossibile realizzare i propri sogni. Io vorrei aggiungere che nessuna di loro, dopo ieri, deve pensare che sia giusto rimanere al fianco di un marito che ha patteggiato piu’ volte per salvarsi dalle accuse di molestie sessuali per sfruttarne il potere e diventare poi Presidente degli Stati Uniti, perche’ come si e’ visto non funziona.
Manca poi, completamente, qualsiasi accenno di auto-critica. Cosi’ come manca auto-critica in tutto il baccano che si scatena sui social:
Trump ha vinto perche’ l’America e’ razzista e lui e’ un razzista!
E perche’ gli stessi Stati decisivi del Blue Wall, che oggi sono di Trump, in passato votarono per ben 2 volte un uomo di colore e con un nome di battesimo mussulmano?
E perche’ gli Ispanici hanno votato per Trump al 27 % esattamente come per Romney 4 anni fa?
Trump ha vinto perche’ l’America odia le donne e lui odia le donne!
E perche’ le donne hanno votato per Trump al 38 % esattamente come per Romney 4 anni fa?
E che dire di Michelle Obama, una delle first lady piu’ amate della storia? La stessa Michelle che nel 2008 diceva peste e corna di Hillary Clinton (“una che non sa badare al suo matrimonio non puo’ badare al Paese”): pure lei e’ un’odiatrice di donne?
Non sara’ che per convincere un operaio di 50 anni che perde il posto di lavoro e si vede costretto, per campare, a fare l’autista Uber scorrazzando turisti serviva altro rispetto ad Hillary Clinton per farlo tornare ad avere fiducia nel sistema?
Ma per convincere l’operaio bisognava prima di tutto ascoltarlo – cosa che ha fatto Trump, e nessun altro.
Intanto ho preso la metro, scendo alla fermata del Rockfeller Center e ad accogliermi c’e’ l’ennesimo senzatetto.
Non mi metto a fotografarli tutti, ma ne conto 17 (diciassette) in otto isolati.
Davanti alla sede dell’NBC c’e’ ancora un silenzio irreale. Ieri notte questa era la Democratic Plaza, il luogo dove ci sarebbe dovuta essere una grande festa. Oggi mancano solo due balle di fieno sospinte dal vento a completare un paesaggio spettrale. Il tabellone con i risultati e’ ancora li, acceso, muto testimone della terribile beffa.
La Trump Tower – casa del nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America – e’ distante due isolati. Mentre ci arrivo passo davanti all’edificio Fox News, che mi informa che i servizi segreti stanno pensando di costruirci un muro davanti per ragioni di sicurezza. Per l’uomo diventato famoso politicamente grazie all’idea di alzare un muro al confine col Messico, un dolce contrappasso.
Davanti alla Trump Tower c’e’ una ressa pazzesca. L’unico muro, per ora, e’ quello dei cameraman e dei giornalisti di tutto il mondo che se fino a ieri lo snobbavano ora si prendono a gomitate sui denti per il posto migliore da cui riprendere il tamarrissimo logo a letteroni cubitali.
Ma c’e’ anche uno spettacolo umano assai interessante. A destra trovo il cow-boy di Times Square, una vera icona trash della citta’, che da artista del marketing si e’ trasferito sulla Fifth Avenue e ora intona canzoni anti-Obama, circondato da una folla rednecks ebbri di gioia come durante il Superbowl.
Forse aspettano che Trump li noti e offra loro una poltrona da Senatori, se non da Segretari di Stato: dato l’andazzo, sembrano a calzare a pennello.
Ma al nerboruto cow-boy canterino e alla sua folla di paonazzi adoratori risponde a pochi metri un super hipster tutto look e canzoni di Bob Dylan, circondato a sua volta da fan democratiche con cartelli di contestazione d’ordinanza.
La sfida e’ tesa, la tensione c’e’.
Nel duello canoro, a mio parere, stravince il cowboy. Per sul look non ho dubbi, meglio l’hipster. Per me e’ un si per entrambi, per la polizia invece e’ un what the fuck are you doing? perche’ il marciapiede si e’ imbottigliato di gente che ride, fa foto, riprende in un’atmosfera da sagra paesana. L’avvento del dittatore si e’ gia’ trasformato in farsa, c’e’ spazio anche per l’artista concettuale che si definisce una “performer” e che canta l’Inno Americano. Stavolta, dopo due stonature, schiaccio il pulsante, no secco e me ne vado.
Raggiungo Times Square e finalmente la riconosco. Gente che grida, gente che urla, gente che suona il clackson, gente che prova a venderti qualcosa, gente che si ferma a fare foto all’improvviso e tu ci sbatti addosso, gente che guida un taxi e per poco non ti stira.
Scoppia un parapiglia. Dimostranti pro-Hillary che non vogliono saperne di arrendersi?
Nah. Turisti in coda per un biglietto scontato per un musical.
Mentre i media di tutto il mondo si chiedono increduli cosa accadra’ ora, New York ha metabolizzato tutto ed e’ gia’ tornata alla normalita’. Il mondo reale resta decine di kilometri piu’ avanti, irraggiungibile dalle torri d’avorio come il palazzo del New York Times disegnato da Renzo Piano che in realta’ e’ a pochi metri di distanza e che oggi e’ un bunker dove le meglio intelligenze giornalistiche del mondo trovano rifugio dalle milioni di pernacchie che gli elettori hanno rivolto loro.
Piu’ tardi, usciti da scuola o dal lavoro, qualche centinaio di persona scendera’ per strada a protestare: ma se la piazza viene dopo l’ufficio e finisce in tempo per la cena, allora non si tratta di protesta, ma di folklore – proprio come la sfida canora cui ho assistito io, che almeno era piu’ originale.
Tornando a casa, sulla via del ritorno mi imbatto addirittura in uno sconsolato Bernie Sanders.
Chissa’ cosa sarebbe accaduto se ci fosse stato il povero Bernie (o anche questo suo sosia, che di sicuro avrebbe fatto meglio di Hillary): dato l’accanimento con cui e’ stato fatto fuori probabilmente le riforme anti-Wall Street aveva intenzione di farle sul serio.
Sale il vento, su Facebook impazza la retorica dei padri che non sanno come spiegare alla figlia che la donna che doveva diventare Presidente ha perso ma io penso che a quei padri e’ andata di gran lusso: avesse vinto lei, oltre al problema posto dal marito e dal patteggiamento per molestie sessuali, alle figlie avrebbero dovuto spiegare anche perche’ sia stato giusto truccare le Primarie, dichiararsi pro-gay dopo aver accettato decine di milioni da Paesi dove i gay sono perseguitati, andare da Goldman Sachs a giurare di essere “lontanissima dalla classe media”.
In questo, almeno, Hillary ha avuto pienamente ragione: piu’ lontani di cosi’ non si poteva proprio essere.
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