Partiti e politici
Il potere fine a se stesso: il peccato che Renzi continua a non vedere
Per un momento ci avevo creduto quando disse “ho sbagliato a personalizzare”. Avevo creduto che Renzi riconoscesse l’errore di mischiare l’oggetto di un voto con un altro, proprio come fece D’Alema quando provò a legittimare il proprio governo con un trionfo alle elezioni regionali: arrivò la disfatta regionale e se ne andò il Massimo nazionale.
Invece no. Renzi intendeva che aveva sbagliato, sì, ma solo sul piano della comunicazione, perché si era reso esposto ad essere facile bersaglio dell’anti-renzismo accozzagliatosi. Passato il voto, dunque, persevera nel considerarsi unico protagonista e artefice del NO referendario, magari carezzando l’idea che quel 40% non è poi così male se fosse di un partito, e puntando sul fatto che i partiti del 60% non riuscirebbero a fare una legge elettorale insieme, figurarsi un governo.
E invece Renzi, a personalizzare, ha sbagliato davvero, non solo come tattica di comunicazione. Perché se è certamente vero che una sconfitta del genere non poteva non avere ripercussioni sul Governo che ha voluto la riforma, è anche vero che Renzi, nella sconfitta come nella vittoria, indossa abiti non suoi, si attribuisce poteri che non ha. Come Presidente del Consiglio, innanzitutto, non è troppo credibile nel presentare ora come una sventura l’ipotesi di un governo nato dalla ricerca di una maggioranza in Parlamento, perché questa è proprio la genesi del suo stesso governo. Ma anche come Segretario del Partito democratico i suoi conti non tornano. Proprio come non tornarono quelli di Veltroni, che pensava di aver realizzato il partito all’americana, a “vocazione maggioritaria” per il solo fatto di aver schiacciato quelli che considerava “cespugli” e di essere passato dal lavacro delle primarie.
La verità alla quale sia Renzi che il Partito democratico dovrebbero prima o poi arrendersi è che non si può realizzare un partito a vocazione maggioritaria in assenza di un sistema davvero maggioritario, che non sia -come porcellum e italicum- un proporzionale drogato dal premio di maggioranza. Se il sistema istituzionale continua a premiare i partiti -o quel che ne resta, tra correnti gruppuscoli e bande varie- la pretesa di poter governare il partito stesso o il Paese attraverso una responsabilizzazione individuale all’anglosassone rimane, per l’appunto, una pretesa. Alla lunga, non c’è surrogato che tenga: nome del finto candidato “premier” (!) sul simbolo, finte primarie (che in realtà in Italia sono elezioni di partito aperte a tutti), occupazione delle televisioni e delle poltrone, utilizzo delle inchieste della magistratura, complotti di palazzo: ogni azione finisce per provocare reazioni contrarie uguali e scomposte, perché sempre più frammentate e lontane da un qualsivoglia ancoraggio con la realtà sociale.
Il risultato è che persino quei vagiti riformatori che pure si sono potuti riscontrare con Renzi, ad esempio sulle unioni civili o la responsabilità civile dei magistrati, passano in secondo piano di fronte a un potere che continua ad essere percepito, ma anche ad essere, innanzitutto fine a se stesso.
Sì, la personalizzazione è un errore, almeno fino a quando non si vorranno fare quelle riforme che mettano davvero la persona al centro della politica, non come trovata di marketing o riduzione all’obbedienza per il capopartito, ma come elemento costitutivo delle istituzioni e dei partiti stessa attraverso la scelta secca e responsabile da parte dei cittadini.
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