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Il polpettone luddista è razzista, e noi sembriamo pinscher

14 Giugno 2017

Il catastrofismo è l’ultima trovata retorica dei disfattisti a tutti i costi, a destra si grida all’invasione africana, a sinistra a quella tecnologica. Lo slogan del “Verremo sostituiti!” è identico. E il luddismo manca di obiettività proprio come il razzismo, entrambi simboli irragionevoli di qualcosa di più profondo e banale, la solita zuppa precotta della sfiducia a priori verso il futuro. Il pericolo distopico del poter essere sostituiti dalle macchine è vecchio e ha già assunto mille forme narrative. Lo schema è sempre uguale: noi, puri, nativi, siamo in pericolo; anzi peggio, siamo in via estinzione. Peccato sia falso.

 

Le macchine, ah le macchine, accozzaglie meccaniche incarnate in circuiti e bulloni e – più recentemente – arnesi diventati lisci e intelligenti che fanno quello che noi (umani) non vogliamo più fare, come rischiare la vita in guerra o spedire la posta dall’altra parte del mondo. Ma invece no, tutto sbagliato. Oggi le macchine hanno “pensieri”, capacità motorie e potenzialmente riproduttive, strutture, volti e persino nomi, proprio come gli esseri che ci ostiniamo a etichettare come “viventi”. Non ci sono dei confini netti tra macchina e non macchina perché non ci sono caratteristiche salienti, esclusive, per poterle distinguere. Anche noi siamo macchine. Il nostro corpo per lo meno lo è in modo piuttosto oggettivo. E quindi? E quindi anche le macchine possono essere persone. Niente che la fantascienza non dicesse già cinquant’anni fa, anche prima degli Urania, prima di Dick e di Asimov. Il pericolo apocalittico e distopico del farsi sostituire dalle macchine è vecchio e ha già assunto mille e mille forme nel ventaglio narrativo che va dall’utopia alla distopia. Questa paranoia è la stessa che attanaglia oggi il razzista impaurito dall’“invasione” africana. Teme di essere sostituito (e se lo meriterebbe). Lo schema è identico: noi, originari, puri, nativi, portatori di peculiarità pregne di chissà quale profondissimo simbolismo, siamo in pericolo; anzi peggio, siamo in via estinzione. È il poster della lega che richiama ridicolo al parallelismo padani-indiani d’america. È il sospetto diffuso, quello che ci fosse un agente infiltrato a ogni angolo di San Francisco ai tempi della guerra fredda, quello che ora ci sia il germe del terrorismo dietro a ogni fisionomia nordafricana. Oggi -e mica solo nelle parole dei Salvini e dei Trump- la paura atavica e incontrollabile si incarna nel vittimismo. Nel perseguitare, si fa finta di essere perseguitati, nel sospettare si immagina di essere i controllati, nel marginalizzare ci si racconta come marginalizzati. Fino a spingersi, appunto, in parallelismi come quello europei colonizzati come gli indiani d’america, maschi etero “in via d’estinzione”, carnivori da proteggere dall’orda vegana, e via andando, peccato si stia sbraitando scomposti, un po’ come Abraham Simpson che se la prende con una nuvola. Di fatto si è degli impauriti, e a sbandierare il panico si ottiene solo lo status del pinscher a passeggio: abbaia a tutti perché riconosce la sua inferiorità, la paura e la diffidenza lo portano all’attacco (e lo rendono ridicolo). Tutta roba sbandierata da destre e sinistre autarchiche e spacciata oggi come novità, ma che invece è la stessa fregnaccia di sempre.

Per dar fiato alle trombe luddiste -razziste se le categorie come “tecnologia” fossero razze- si ignora che le differenze mica ci sono, e soprattutto che i numeri del fenomeno, a vederli da vicino, ridimensionano la prospettiva tecnofobica: sia quella dei lepenisti che quella di accelerazion-socialisti con voglia di rivalsa, dei Žižek per dirne uno. Tra gli stratagemmi meno originali c’è il prodigarsi a fare da eco alle voci di chissà quale nome brandizzato come “tech” (Musk su tutti, oppure Hawkings che sostiene la necessità di una certa diffidenza verso l’intelligenza artificiale). Scusette per difendere il partito preso da pauristi, catastrofismo che paga bene alle elezioni (ma forse non più di tanto) e a cui si cerca la fonte più autorevole per nasconderne le fondamenta tremolanti.

Ma la tecnologia è una banalità ripetuta in loop, arriva la novità e non può fare altro che affascinare e intimidire. “Arrivano i robot del sesso” dice la BBC in un servizio sul futuro delle bambole gonfiabili, robot parlanti e ultra-senzienti che sarebbero un pericolo per il futuro dell’emancipazione femminile in quanto “troppo simili alle pornostar”. Per ora nessun proclama luddista in Italia, ma da un paese che ancora non ha legalizzato la prostituzione umana tocca aspettarsi una reazione scomposta, urlante e catastrofista, a quella robotica. E il problema mica è la paura, quella è naturale, semmai lo spirito di adattamento, altrettanto istintivo e animale. Stiamocene nell’orticello autarchico lepenista, preoccupiamoci pure dell’olio tunisino e dei robot del sesso, rimarremo dei pinscher a passeggio.

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