Partiti e politici
Il Pd è tornato ad essere una Ditta. E Renzi il suo capo indiscusso
“La democrazia è qui”, diceva un cartello su ogni gazebo del partito democratico dove 2 milioni di persone sono andate ad eleggere, attraverso il mai in crisi strumento delle primarie, il prossimo segretario del Pd. Ha vinto Matteo Renzi, ha stravinto con il 70% delle preferenze, “asfaltando” – come piaceva dire all’ex premier – il ministro della Giustizia Orlando e il presidente della Regione Puglia Emiliano.
Il popolo del Partito democratico ha stravolto le previsioni (dei gufi?) che accertavano una scarsa affluenza ai gazebo. Invece no. Tantissima gente è andata a votare, checché ne dicano i soliti casi strani (Gela, Nardò, gazebo piazzati in posti assurdi, ecc.). Non è più il Pd dell’uomo solo al comando, dice bene Renzi. È un Pd diverso da quello che si proponeva di mettere insieme diverse anime del centrosinistra. Il partito democratico è un organismo renzianamente modificato: un contenitore ad immagine e somiglianza del suo capo indiscusso. E questo non è né un male né un bene. Tempo fa pensavo che forse Renzi avrebbe fatto bene a immaginare e strutturare un suo partito politico: troppo diversa la strada intrapresa dal fondatore della Leopolda che in pochissimi anni era riuscito a prendersi tutto e scalare pure il Governo senza un passaggio dalle urne. Un pensiero forse non del tutto giusto ma sta di fatto che oggi il risultato è lo stesso: il Pd è Renzi, Matteo è il Pd. Un percorso, a tratti doloroso, che ha portato fuori dal seminato democratico alcune importanti personalità di centrosinistra, alcuni fondatori della stessa “ditta” e comunità: Pierluigi Bersani, Guglielmo Epifani, Enrico Rossi, Pippo Civati, Stefano Fassina, Roberto Speranza. E poi i fondatori dell’esperienza dei Dem in Italia: Massimo D’Alema, Rosy Bindi, Antonio Bassolino, Sergio Cofferati, Vasco Errani, Romano Prodi. Ormai “rottamati” dall’ex sindaco di Firenze, ormai un lontano ricordo.
Da oggi si parlerà di alleanze, di legge elettorale, di salvataggio della compagnia di bandiera. Il Renzi bis (in segreteria, momentaneamente) sarà totalmente diverso dal primo, assicura Matteo. Poco importa se Orlando rimarrà o meno dentro, con Gianni Cuperlo e la comitiva che si prefiggeva di contrastare lo strapotere comunicativo di Renzi. Il Pd oggi può seguire appieno la strategia del nuovo segretario, sempre più attento al modello francesce proposto da Macron: liquido, né destra né sinistra, figlio del “ma anche ” Veltroniano e soprattutto populista.
La vera sfida è una sola, a mio avviso. Costruire una nuova classe dirigente. Cosa che Renzi in questi anni non ha fatto o non ha saputo fare, attorniandosi di yes-men e yes-women o da fiducioso usato sicuro (vedi alcuni ministri dell’attuale Governo, buoni per tutte le stagioni). Dia spazio a queste due milioni di persone. Valorizzi intere generazioni che non si sentono rappresentate. Allarghi la partecipazione. Sperando che il primo atto del nuovo segretario non sia il tweet “Gentiloni #staisereno”.
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