Partiti e politici

Il Pd e il suo tiranno: abbatterlo con la sua stessa violenza o esserne complici

8 Luglio 2018

Scrive un socialista intelligente e appassionato come Enzo Cursio che il Pd si sta avviando a larghi passi alla sua “Delturchizzazione”, quel momento storico in cui, in piena Tangentopoli, l’ultimo segretario del Psi, Ottaviano Del Turco, si fece definitivo becchino delle spoglie socialiste depositandole al cimitero. Se oggi quella condizione manca di un elemento chiave – la devastazione giudiziaria – l’immagine complessiva è perfetta: il Partito Democratico è morituro, c’è solo da scegliere il becchino che lo accompagnerà a miglior vita. Per ribellarsi a un destino che appare segnato, l’ultima speranza è abbattere il tiranno. Abbattere la statua del tiranno, dopo aver abbattuto (politicamente) lui. Quel momento nel Pd è arrivato.

Sappiamo già che abbattere un tiranno è questione molto complessa e che soprattutto non offre la minima grazia sul futuro del partito. Se restiamo alla grande storia socialista, la caduta fragorosa di Craxi produsse semplicemente rovine su rovine, sino allo sfaldamento completo. In questo caso, la caduta di Matteo Renzi potrebbe semplicemente dare libero sfogo a una muta di cani famelici che si avventano sulla sua carcassa, con l’obiettivo di fagocitare il potere, senza il minimo amore per un partito, il suo popolo, la sinistra, e tutti quelli che in qualche modo ci credono. Se così è, se così sarà, il Partito Democratico scomparirà in un tempo molto più rapido di quanto ci si possa immaginare.

Dunque siamo a un bivio: abbattere la statua del tiranno, con tutti i rischi del caso, rischi che il conflitto interno si parcellizzi in altri mille, esiziali, conflitti sino a sparizione, o continuare con le estenuanti regole della real casa, lo statuto, le direzioni, le assemblee, le correnti, quel cerimoniale arcaico e irrispettoso d’ogni decenza, che hanno tolto anche l’ultimo refolo di ossigeno a un partito in coma? Il bivio è molto complesso ma, o si sceglie adesso, o la fine arriverà senza farsi annunciare. Abbattere la statua del tirano non dà nessuna garanzia futura, questo è meglio saperlo subito. Del resto, lui stesso – il tiranno – ne è perfettamente consapevole, per questo tiene ancora saldamente in scacco il suo partito pur non essendone, formalmente, segretario. Ma soprattutto, e questa è domanda che si fanno molte persone serie, dotate di un minimo raziocinio: come fa, Matteo Renzi, a tenere ancora sotto scacco il partito, pur non essendone più, formalmente, il suo numero uno?

A questa domanda, generalmente, si risponde con la motivazione del consenso interno: l’ex sindaco di Firenze dispone ancora dei numeri, in qualunque momento si dovesse votare, dentro il Partito Democratico la maggioranza è (ancora) sua. Questo è un falsissimo problema. Non che non sia vero, certo che è vero. I numeri parlamentari sono i suoi, del resto la composizione delle liste elettorali è stata composta con lui ancora segretario, c’è dunque una logica matematica. Ma questo non può bastare, non è la matematica che può raccontare un clima interno, una cristallizzazione del dissenso che dura ormai da molti anni e che non risponde più a criteri di logica politica, a meno che non si introduca il vero movente che ha irrigidito e bloccato ogni possibilità di crescita attraverso il dissenso: il Terrore. I dirigenti del Partito Democratico hanno il terrore di Matteo Renzi, quasi una paura fisica, che in politica è un sentimento preciso, che si compone di una miscela di autorevolezza, spinta sino ai limiti dell’autoritarismo, e in questo caso anche oltre, e di minaccia, quel modo minaccioso di rivolgersi agli interlocutori che ha preso una piega sempre più maligna e cattiva con la parabola decrescente della stella renziana. Più le cose gli sono andate male, più Renzi ha instillato terrore all’interno del Pd.

Ieri, nel corso dell’assemblea che avrebbe dovuto indicare una prospettiva, abbiamo avuto l’esempio illuminante di questo sentimento interno di terrore. Renzi ha costruito il suo intervento su un paradigma anche di un certo effetto e di una logica stringente: è inutile immaginare qualunque leadership, qualunque rinnovata condizione politica, se dal minuto successivo alla proclamazione di un nuovo leader ci saranno già gruppi dirigenti che pensano a come abbatterlo, che tramano nell’ombra per azzopparlo, per delegittimarne il consenso. Se questo è il Pd, il Pd non va da nessuna parte. Come dire: ragazzi, ciò che è accaduto a me, non deve accadere ad altri. Nobile, vero? Peccato che fosse semplicemente autoreferenziale, eternamente referenziale, perché quando l’atmosfera si è scaldata, il vero Renzi ha messo in campo la sua minaccia, quasi con la bava alla bocca: «Faremo il Congresso e riperderete!»

Noi che siamo abituati ad altre comunità, e che abbiamo visto alle comunità politiche solo con gli occhi della professione (e più privatamente della passione), abbiamo fatto un balzo. Non ci era mai capitato che un tono così liquidatorio, personalistico, rissaiolo, si impadronisse della battaglia politica, facendo strame del confronto. Noi si credeva, ingenuamente, che quella soglia, abbondantemente superata con una minaccia neppure velata, portasse l’assemblea sulla soglia di una collettiva crisi di nervi. Abbiamo immaginato che mezza sala si alzasse e abbandonasse l’Ergife per quel tono così volgare o che, e forse ci sarebbe anche piaciuto anche di più, il bergheimer Martina fermasse i lavori dal palco della presidenza per chiedere conto di quella minaccia. Magari, facendogliela rimangiare. E invece non è accaduto nulla, nel solco di un terrore collettivo a cui quasi nessuno sfugge più.

Ma per andare alle cose concrete: come si fa ad abbattere un tiranno? Per parlare di Renzi non è una questione di numeri che non ci sono, o almeno non è una questione solo di numeri. La via è un’altra e più complessa. È quella di utilizzare i suoi stessi strumenti, a brigante, brigante e mezzo, è quella di alzare la voce quando è necessario, è quella – sì, anche – di cercare la rissa se è esattamente quello che cerca. È il percorso che abbiamo fatti tutti noi a scuola, e chi anche a militare, quando siamo siamo stati vessati da gruppi di ragazzi che dell’umiliazione altrui ne facevano un modo di stare al mondo. Si subisce e poi si subisce ancora, e poi ancora, tornando a casa tutti i giorni con la disperazione nel cuore, sino a quando un bel giorno, forse perché abbiamo incontrato il sorriso di una ragazza, o perché ci è capitato di vedere in tv «Una vita difficile» di Dino Risi, la misura sarà colma e allora, incontrandolo, appena inizierà con il suo solito tono, gli assesteremo un fantasmagorico calcio nei coglioni che lo lascerà a terra senza fiato. Liberarsi di Matteo Renzi dentro di sé è la prima cosa da fare per salvare un partito che appare già morto.

Ps. Permetteteci anche un’ultima, seppur modesta, malizia: se alla condizione di vessati vi siete ormai abituati, perché è comunque una solida quanto malinconica rendita di posizione, allora è giusto augurare lunga vita al tiranno.

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